Per molti, la mattina dell’8 settembre in Nepal sarebbe iniziata come un’altra giornata normale. Ma qualcosa era già fuori dall’ordinario prima ancora che il sole sorgesse. Il governo, su impulso legislativo e burocratico, decideva di sospendere o “bandire” 26 piattaforme sociali. Facebook, Instagram, WhatsApp, X, YouTube, LinkedIn… la lista era lunga. L’ordine venne motivato dal governo come un passo necessario per far rispettare norme sui servizi digitali, sulle registrazioni obbligatorie delle piattaforme, su tasse digitali, ma per i giovani nepalesi fu molto più che una procedura: fu un attacco diretto ad uno spazio centrale della loro vita quotidiana, della loro libertà, del loro modo di comunicare, di organizzarsi, di esistere in un mondo connesso.
C’è una frase che torna spesso nelle testimonianze: “non era solo social media, era fiducia, trasparenza, voce politica”. Perché il divieto non era percepito come un semplice provvedimento tecnico, ma come la punta di un iceberg di problemi ben più radicati: corruzione diffusa, favoritismi, una classe dirigente vista come distante, onnipresente ma opaca nelle azioni. I giovani nepalesi, quelli della Generazione Z, che sono cresciuti con lo schermo sempre acceso, con le app come estensione del sé, non accettarono in silenzio.
Da Kathmandu e dalle altre città, dalle scuole e università, ma anche dai quartieri più remoti, montani, rurali, la gente uscì in strada. Proteste che erano inizialmente richieste molto concrete: revoca del bando alle piattaforme, risposta politica, chiarezza. Ma presto quelle richieste si fecero più profonde. Non si trattava più solo di tornare a usare WhatsApp o Instagram: era la richiesta che chi governa smettesse di considerare che questi giovani siano “solo utenti”, ma che diventino cittadini partecipi, che i loro problemi — lavoro, opportunità, meritocrazia, trasparenza — vengano presi sul serio.
Le proteste furono vivaci, intense, diffuse. Non sempre organizzate centralmente, ma spesso coordinate tramite strumenti digitali — Discord, social media, piattaforme di petizione online come SpeakUp Nepal. Giovani influencer, studenti, attivisti locali si fecero sentire da subito. Molti non solo subirono la sospensione della comunicazione digitale, ma videro limitati i loro mezzi per mantenere contatti, relazioni, anche rimandi emotivi e politici col mondo esterno. Quella freddezza istituzionale che dice “non fai parte delle decisioni” si trasformò in rabbia.
La risposta dello Stato fu inizialmente di rigida difesa: ordine esecutivo, giustificazioni tecniche, argomenti di sicurezza, regolamento. Ma col passare dei giorni la pressione crebbe. I media riportarono sdegno, proteste pubbliche, manifestazioni di piazza, ma anche segni chiari che la classe politica cominciava a sentire il peso del dissenso. Momenti di scontro, di conflitto, che non furono puramente simbolici — ci furono vittime, ci furono feriti, ci fu paura, così come rabbia.
Da lì vennero le conseguenze politiche. Il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli, figura centrale di lungo corso nella politica nepalese, dovette affrontare non soltanto le critiche diffuse, ma una crisi di legittimità. La richiesta di trasparenza, la richiesta che venissero resi pubblici i comportamenti della classe politica, che venissero affrontati favoritismi e mostrata responsabilità, non era più uno sfogo nei social: era un urlo nella realtà pubblica. Alla fine, dopo giorni di mobilitazione, manifestazioni di massa, apertura di discussione, le pressioni portarono al cambiamento: la vista della via politica fu segnata da dimissioni, da riconoscimenti che qualcosa doveva ser’ cambiato.
Questo movimento rappresenta qualcosa di nuovo, o almeno un’evoluzione di ciò che già si vedeva nell’Asia meridionale e nel mondo: una generazione che non accetta più di stare in secondo piano, che considera la libertà digitale come parte della propria identità e dei propri diritti. Non è un’astinenza dal digitale, ma un rifiuto del digitale che sia usato come strumento di controllo, di censura, di autoritarismo mascherato. Non basta “darvi gli strumenti”, servono istituzioni pronte a essere trasparenti, responsabili, partecipative.
Le analogie ci sono con altri paesi dove il conflitto tra generazioni emerge attorno al digitale, alla comunicazione, all’accesso all’informazione: è come se quei confini che si pensavano invisibili — tra pubblico e privato, tra Stato e cittadino — siano diventati improvvisamente brutali, visibili, insostenibili. E quando uno Stato impone limiti sul flusso di informazioni, non può sperare solo nella paura o nella forza: spesso ottiene il risultato opposto, risvegliando una energia che non si placa con ordini e decreti.
Al centro della rivolta dei giovani nepalesi c’è un’identità tecnologica. Un’identità che non è frivola, ma è profondamente politica: le app, i social, i media digitali non sono accessori o intrattenimenti, ma luoghi di relazione, partecipazione, espressione. Quando questi spazi vengono tagliati, non è solo un disagio, è una ferita.
L’esperienza di Nepal mostra che la libertà digitale non è un optional. Per molti giovani, è parte della dignità. E che la politica che ignora questo fatto — che considera internet come optional, che pensa che “regole” possano sopperire al bisogno di esistenza digitale — si espone al rischio di rottura.
Nel bilancio della protesta rimarranno segni profondi: vittime, feriti, danni materiali, ma anche una consapevolezza diversa. Una generazione ha scoperto che può farsi sentire, che non è sola, che le sue richieste non sono marginali. E ha scoperto che il digitale è un filo che collega molto più di messaggi: collega aspirazioni, senso di giustizia, speranze di un futuro in cui governare non significhi controllare, ma ascoltare.