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Per oltre un decennio, il sogno del multicloud—la capacità di un’azienda di utilizzare senza soluzione di continuità i servizi e l’infrastruttura di più provider come AWS, Google Cloud e Microsoft Azure—è rimasto in gran parte ostacolato da un problema fondamentale: la rigidità dei dati e l’inerzia tecnologica. Sebbene la strategia multicloud offrisse teoricamente maggiore flessibilità, ottimizzazione dei costi e mitigazione del rischio, la realtà operativa si scontrava con il cosiddetto “muro del giardino recintato” e con la gravità dei dati. Spostare enormi dataset tra i diversi cloud non solo comportava costi esorbitanti (le famigerate egress fees) ma introduceva anche una latenza inaccettabile, paralizzando le applicazioni mission-critical che necessitano di una risposta in microsecondi.

Questo dilemma ha forzato le aziende a scendere a compromessi: scegliere il cloud migliore per l’applicazione, ma rinunciare al database più efficiente, o viceversa, rimanendo di fatto incatenate a un unico ecosistema. Il vero ostacolo non era tanto la mancanza di connettività di rete, quanto l’impossibilità di far risiedere il database core—spesso il sistema Oracle, vitale per moltissime grandi imprese—all’interno del cloud scelto per l’elaborazione.

La mossa strategica con cui Oracle ha riscritto le regole del gioco è arrivata attraverso una serie di partnership senza precedenti con gli altri hyperscaler. Abbandonando la tradizionale mentalità del “giardino recintato”, Oracle ha inaugurato un’era di cooperazione, accettando di co-locare le proprie infrastrutture hardware e i propri servizi di database, come Oracle Autonomous Database e Oracle Exadata, direttamente all’interno dei data center di Microsoft Azure, Google Cloud e, più recentemente, anche con Amazon Web Services.

Il risultato di questa collaborazione, evidente in prodotti come Oracle Database@Azure o Oracle Database@Google Cloud, è la soluzione al problema della latenza. Consentendo agli utenti di eseguire i servizi di database Oracle ad alte prestazioni nello stesso ambiente fisico in cui risiedono le loro applicazioni e i loro carichi di lavoro analitici (Application e AI workloads), si elimina la necessità di spostare quantità massive di dati attraverso la rete Internet pubblica o interconnessioni esterne. La latenza, l’elemento che per anni ha minato le performance multicloud, viene ridotta al minimo indispensabile, garantendo la scalabilità e l’affidabilità richieste dai sistemi mission-critical.

L’impatto di questa rivoluzione è stato duplice. Da un lato, ha liberato le aziende dal vincolo del fornitore unico (vendor lock-in), permettendo loro di selezionare il miglior servizio di cloud per ogni specifica esigenza—che sia l’offerta AI di Google, i servizi aziendali di Azure, o l’ampiezza di AWS—senza doversi separare dal database Oracle. Dall’altro lato, per Oracle stessa, questa apertura ha generato una crescita sbalorditiva, con ricavi multicloud che hanno registrato, secondo le stime, un tasso di crescita del 1.529%, dimostrando l’enorme domanda inespressa per una vera interoperabilità.

In sintesi, la decisione di Larry Ellison e di Oracle di rendere i loro database disponibili nativamente all’interno dei cloud concorrenti non è stata solo una mossa commerciale di successo, ma un atto che ha ridefinito lo standard per l’intero settore. Sfruttando la co-locazione e l’interconnessione ad alta velocità, Oracle ha risolto la sfida gemella della latenza e del costo di spostamento dei dati, trasformando un concetto teorico—il multicloud—in una realtà operativa efficiente, flessibile e, soprattutto, a prova di futuro.

Di Fantasy