L’avvento degli assistenti alla codifica basati sull’intelligenza artificiale ha sollevato un dibattito radicale e quasi esistenziale nel mondo della tecnologia. Con strumenti in grado di generare blocchi di codice, completare funzioni complesse e persino correggere bug a partire da semplici istruzioni in linguaggio naturale, molti si chiedono: ha ancora senso imparare le fondamenta della programmazione nel modo tradizionale, senza affidarsi immediatamente all’AI? C’è chi sostiene che persino l’idea di studiare a fondo la sintassi e la logica di un linguaggio di programmazione sia ormai obsoleta, quasi un gesto stupido nell’era dei modelli linguistici potenti. Tuttavia, un’analisi più profonda rivela che l’uso efficace dell’intelligenza artificiale nella codifica non sminuisce il valore delle competenze di base, ma le eleva a un livello di importanza ancora maggiore.

L’errore fondamentale in questa prospettiva nichilista sta nel confondere l’apprendimento con l’output. L’AI, in questo contesto, è uno strumento di produttività incredibilmente potente, non un sostituto della comprensione. È come paragonare l’uso di una calcolatrice avanzata all’apprendimento della matematica: si può ottenere rapidamente il risultato corretto per un calcolo complesso, ma senza una solida conoscenza delle regole aritmetiche sottostanti, l’utente non sarà mai in grado di impostare il problema correttamente, identificare un errore di input o, cosa più importante, affrontare un problema matematico non standardizzato. Analogamente, chi si affida ciecamente all’AI per la generazione di codice sviluppa una dipendenza che non permette di costruire le fondamenta logiche e il pensiero critico che definiscono un vero ingegnere del software.

La programmazione, al suo cuore, non è la scrittura della sintassi; è la risoluzione dei problemi, l’architettura dei sistemi e la capacità di pensare in modo analitico e sequenziale. Queste abilità cognitive vengono affinate solo attraverso l’esperienza pratica e la fatica di scrivere e, soprattutto, di correggere il codice da soli. L’AI può generare codice funzionante per il novanta per cento dei compiti standardizzati, il cosiddetto boilerplate, ma è nel restante dieci per cento – nella gestione di edge case, nell’integrazione con sistemi legacy, nell’ottimizzazione delle performance e nella progettazione di architetture innovative – che si misura il valore di un programmatore esperto. E per gestire queste sfide, è necessaria una conoscenza profonda di come i dati fluiscono, come le risorse vengono gestite e perché un determinato frammento di codice generato dall’AI potrebbe fallire in un contesto specifico.

Inoltre, la figura del programmatore si sta evolvendo da mero scrittore di codice a integratore e supervisore dell’AI. Il lavoro del futuro sarà quello di orchestrare sistemi complessi in cui l’AI svolge il ruolo di co-pilota, velocizzando enormemente il processo. Tuttavia, per “dialogare” efficacemente con questi modelli avanzati, è indispensabile saper porre la domanda giusta, valutare criticamente la risposta e, se necessario, effettuare il debugging o la refactorizzazione del codice generato. Un programmatore che non conosce il linguaggio è destinato a essere schiavo del suggerimento dell’AI, incapace di discernere tra un codice efficiente, sicuro e scalabile e una soluzione superficiale.

Di Fantasy