L’ipotesi che OpenAI sbarchi in Borsa non è più un semplice rumor: secondo un’esclusiva Reuters, l’azienda avrebbe iniziato a preparare le carte per un’IPO che la valuterebbe fino a 1.000 miliardi di dollari, una cifra capace di ridisegnare le gerarchie di mercato e di segnare un nuovo record nella storia delle offerte pubbliche iniziali. La notizia arriva il 30 ottobre 2025, con l’indicazione di una possibile presentazione formale dei documenti già nella seconda metà del 2026, mentre l’esordio sui listini potrebbe concretizzarsi nel 2027, a seconda delle condizioni di mercato. Ci sarebbero discussioni preliminari per raccogliere almeno 60 miliardi di dollari, punto di partenza destinato a salire, a conferma della portata dell’operazione.
Per comprendere la credibilità di questo scenario occorre guardare alla traiettoria recente dell’azienda. OpenAI ha percorso in pochi anni tutte le tappe che separano un laboratorio di ricerca ambizioso da una macchina industriale capace di monetizzare su scala globale. Prima la metamorfosi societaria, con l’evoluzione verso una struttura “for-benefit” che ha sciolto nodi regolatori e consentito un rapporto più lineare con gli investitori; poi l’ulteriore assestamento della governance nel 2025, con l’approvazione in Delaware e California del modello di public benefit corporation e un accordo che ha ridisegnato anche i rapporti con Microsoft, oggi socio di riferimento con una partecipazione importante nell’entità a scopo di lucro. Questi passaggi, sottovalutati dal grande pubblico, hanno creato le condizioni per pensare seriamente ai mercati pubblici.
Il sentimento degli investitori, del resto, parla da sé. Nel corso dell’autunno 2025, in seguito a operazioni sul secondario e nuove linee di finanziamento, OpenAI è stata valutata attorno ai 500 miliardi di dollari, superando SpaceX e issandosi a start-up più “cara” del pianeta. Numeri del genere non nascono nel vuoto: riflettono una crescita dei ricavi che gli analisti descrivono come travolgente e una domanda di prodotti e servizi AI che, dal 2022 in avanti, non ha conosciuto flessioni, fino a contagiare l’intero listino tecnologico. Non stupisce quindi che i mercati inizino a “prezzare” un collocamento potenziale nell’ordine del trilione, soprattutto se accompagnato da racconti industriali convincenti su chip, capacità di calcolo e distribuzione globale dei modelli.
L’IPO da 1.000 miliardi, se confermata, avrebbe molte letture. La prima è simbolica: sancirebbe l’ingresso dell’AI generativa nella piena maturità finanziaria, spostando il baricentro del valore tecnologico dai tradizionali campioni del software verso società nate direttamente sull’onda dei modelli di linguaggio e dei sistemi multimodali. La seconda è industriale: uno sbarco con tale valutazione implicherebbe l’accesso a una base di capitale pressoché illimitata, necessaria per sostenere gli investimenti in calcolo e approvvigionamento di hardware—dal training su larga scala ai cluster inferenziali distribuiti—che hanno costi multimiliardari ricorrenti. In questo senso, l’IPO diventerebbe una leva tattica per finanziare la corsa al compute, in un mercato in cui fornitori come Nvidia, AMD e gli hyperscaler orchestrano un ecosistema sempre più interdipendente.
C’è poi un’interpretazione più strettamente finanziaria. La finestra temporale suggerita dalle indiscrezioni—documentazione in H2 2026 ed eventuale listing nel 2027—non è casuale: dà all’azienda margine per consolidare numeri, pipeline di prodotto e marginalità dei servizi enterprise, mentre consente ai mercati di assorbire la nuova ondata di collocamenti tech. È un messaggio prudente, lontano dall’idea di una “fuga in avanti” nell’immediato, ma sufficientemente assertivo da cristallizzare le aspettative e sondare l’appetito degli investitori istituzionali per una raccolta iniziale di almeno 60 miliardi. Che i dettagli possano cambiare è pacifico; che l’operazione sia entrata in un orizzonte realistico, è la vera notizia.
A rendere più leggibile il quadro contribuisce la ridefinizione dei rapporti con Microsoft, protagonista indiscussa dello slancio AI su scala borsistica nel 2024–2025. La partecipazione del colosso di Redmond in OpenAI—rafforzata durante l’anno—rimane un asse strategico per l’accesso a infrastrutture cloud, distribuzione enterprise e co-sviluppo di piattaforme software, ed è stata accompagnata da una riorganizzazione societaria che ha chiarito pesi e contrappesi nella governance. È un equilibrio delicato, ma la narrativa di mercato lo interpreta come un fattore di stabilità, non come un vincolo, e contribuisce a spiegare perché un’IPO possa attirare capitali a valutazioni così elevate.
Non meno importante è lo sguardo dal lato delle regole e della piazza di quotazione. Un collocamento di queste dimensioni richiede un lavoro di cesello su disclosure, rischi specifici legati ai dati e alla sicurezza, contenziosi potenziali in materia di copyright e diritti dei contenuti, oltre alla messa a terra di metriche che i mercati possano accettare come “standard” per valutare aziende AI-native: ricavi ricorrenti legati a API e piattaforme, costo per token o per GPU-ora, tassi di adozione dei prodotti consumer e enterprise, e indicatori di efficienza del training. Sono tutti elementi che possono fare la differenza tra un’accoglienza euforica e una correzione post-IPO, come la storia recente della tecnologia ha più volte ricordato.
A chi osserva dall’esterno, il numero “1.000 miliardi” può sembrare soprattutto uno slogan. In realtà, fotografa un’agenda precisa: consolidare la leadership tecnica, blindare le forniture di calcolo in un contesto di risorse scarse e costose, difendere la posizione contro la rincorsa dei grandi rivali e degli open model di nuova generazione, e, soprattutto, trasformare in cassa la centralità di ChatGPT e dei servizi collegati. È qui che l’IPO si incrocia con la strategia: più che un traguardo, è un mezzo per sostenere la velocità di crociera necessaria a mantenere il distacco.
Nel frattempo, la reazione del circuito informativo è stata immediata. Testate finanziarie e tecnologiche hanno rilanciato i dettagli chiave dell’indiscrezione Reuters—la forchetta di valutazione fino a 1 trilione, la possibilità di deposito documentale già nel 2026, la raccolta minima di 60 miliardi, l’avvertenza che numeri e tempistiche possono cambiare—conferendo all’ipotesi un’aura di plausibilità che va oltre il semplice “sentito dire”. Anche l’ecosistema degli investitori retail ha già iniziato a interrogarsi su come ottenere esposizione indiretta, nell’attesa che si chiariscano piazza di quotazione, struttura dell’offerta e potenziali tranche riservate agli istituzionali.