Immagine AI

Quando pensiamo alle grandi innovazioni dell’intelligenza artificiale, immaginiamo modelli potenti, dati giganteschi, algoritmi sofisticati. Ma un dato che spesso resta nascosto è chi, concretamente, sta usando davvero queste tecnologie su scala massiva — chi spinge verso l’adozione reale, non solo quella annunciata nei comunicati.

La lista include trenta aziende e individui che hanno processato con i modelli OpenAI più di un trilione di token ciascuno — un traguardo impressionante, che equivale a centinaia di miliardi di parole, applicate in migliaia di applicazioni che lavorano giorno e notte. Ciò che sorprende è quale tipo di realtà si cela dietro quei numeri: non startup fragili che cercano visibilità, ma imprese consolidate, con prodotti e servizi già vivi, che stanno silenziosamente intrecciando l’AI nei loro processi. Uber, Duolingo, Salesforce, Notion, Shopify, T-Mobile, Zendesk, Canva, Datadog, Mercado Libre: sono queste alcune delle realtà che dominano la lista.

Questa rivelazione ha implicazioni profonde. Primo, smonta l’idea che l’AI su larga scala sia un terreno di pionieri incerti e sperimentali. Qui emerge che le aziende che hanno già un business maturo stanno integrando l’IA nelle loro operazioni fondamentali — non come ornamento, ma come ingranaggio di fondo. In secondo luogo, mette in luce che la “leadership AI” non si misura tanto in qual modello è più grosso o più raffinato, ma in chi riesce a far funzionare quei modelli in ambienti reali, con carichi, variabilità, utenti e vincoli aziendali.

Dietro ciascun token generato, ogni riepilogo, ogni chat, ogni calcolo, c’è un sistema che deve reggere tensione, affidabilità, sicurezza, latenza, costi. Le aziende del Trillion-Token Club non sono solo heavy user, sono anche architetti dell’infrastruttura AI che tiene il passo con le esigenze reali. E questo investe la domanda di chi, fra i molti che proclamano “noi siamo l’avanguardia”, stia lavorando davvero sull’adozione quotidiana.

C’è un terzo elemento che la lista rende evidente: l’AI a scala non è più appannaggio esclusivo dei concorrenti emergenti o dei laboratori universitari. Le grandi piattaforme che già presidiano mercati, prodotti e ecosistemi digitali stanno assumendo il ruolo guida. In questa competizione, chi domina i canali, i clienti, le integrazioni, ha già un vantaggio che non si misura solo in teraflop o architetture, ma in capacità di incapsulare l’AI nei flussi operativi.

Ma non è un dominio privo di rischi. Quando le operazioni dipendono da sistemi intelligenti, ogni errore conta, ogni latenza pesa, ogni falla nella governance o nella privacy può generare danni reputazionali o regolatori. Le aziende che oggi sembrano prime della classe dovranno gestire non solo le performance, ma anche la responsabilità di un’AI inserita nelle pieghe del reale.

Il “Club del trilione” racconta una storia anche geografica e strategica: non tutte le aziende che spingono l’AI sono negli Stati Uniti. Alcuni nomi provengono dal Sud America, dall’Asia, dall’Europa, dimostrando che la corsa all’adozione massiva attraversa il mondo. Questo può essere uno stimolo per chi, in realtà più piccole o in contesti meno centrali, aspira a entrare in questo club esclusivo non con hype, ma con prodotti e processi che usano l’AI ogni giorno.

Di Fantasy