Negli ultimi tempi, il concetto di coding agentico — ossia quello in cui un agente di intelligenza artificiale (IA) assume un ruolo attivo nella scrittura, gestione o evoluzione del software — ha catturato l’immaginazione del settore tecnologico. Si parla di modelli in grado di “risolvere problemi”, prendere decisioni, orchestrare flussi di lavoro e persino superare l’intervento umano diretto.
Dietro questa promessa si nasconde una realtà meno lineare: la domanda è se questi sistemi stiano davvero svolgendo un lavoro autonomo e affidabile o se siano più simili a “un tirocinante molto intelligente che fa finta di saperne di più”.
Se infatti l’agente IA può dare l’impressione di operare in modo indipendente, spesso, come rilevano gli sviluppatori intervistati, occorre un impegno umano significativo per orientarlo, correggerlo, supervisionarlo. Ciò significa che, al momento, l’agente non è ancora quel virtuoso autore di codice “da solo” che alcuni immaginano.
Per capire meglio, vale la pena inquadrare cosa intendiamo per “agente” nel contesto della programmazione. Un agente, nell’ambito dell’IA, è un sistema che riceve input, valuta la situazione, prende decisioni (o propone azioni) e spesso agisce in un ambiente, possa essere digitale o fisico. Quando parliamo di coding agentico, ci riferiamo a modelli che non si limitano a generare snippet di codice dietro richiesta, ma che sono progettati per gestire parti del processo di sviluppo del software: ideare, implementare, testare, modificare, forse anche orchestrare altri strumenti.
In un post sul forum di Cursor, uno sviluppatore lamentava che sia GPT‑5 sia Gemini Pro non erano riusciti a fare neppure un aggiornamento basilare a una funzione Go. Questo episodio riporta in gioco la tensione tra ciò che viene annunciato e ciò che è realmente consegnato.
Guidare un agente a eseguire compiti tecnici complessi richiede in realtà molto sforzo umano. Non basta dire: “Ecco, fai questo”. Occorre formulare istruzioni ben calibrate, definire contesti chiari, gestire errori, dare feedback correttivi. In altri termini: l’agente richiede ancora “allenamento” e supervisione come un collaboratore junior, non è ancora un sostituto del senior.
Una delle implicazioni è che il motto “ridurre la necessità di sviluppatori umani” viene forse promosso prematuramente. Gli sviluppatori fanno notare che, sì, l’agente può accelerare alcune fasi o svolgere compiti ripetitivi, ma quando si entra in zone complesse — architettura, integrazioni, debugging di masse di codice legacy — l’intervento umano resta imprescindibile.
Il “vero” valore dell’agente non è tanto nel “fare tutto da solo”, quanto nell’essere uno strumento abilitante: un assistente capace di partecipare al flusso di sviluppo sotto guida umana, accelerando iterazioni, suggerendo codice, testando varianti, prendendo alcune decisioni limitate. Un po’ come un allievo di talento che lavora al tuo fianco — non il “capo” del progetto, ma un collaboratore che libera tempo e testa nuove soluzioni.
L’articolo mette in luce alcune barriere operative: innanzitutto, gli agenti spesso faticano a seguire istruzioni semplici o anche a comprendere pienamente il contesto di un sistema software complesso. Questo avviene perché il codice reale porta con sé massa di dipendenze, di casi limite, di vincoli impliciti che non sempre l’agente ha “visto”.
In secondo luogo, le organizzazioni che vogliono incorporare coding agentico devono ancora dedicare risorse al setup: creare workflow, adattare l’agente, integrare con gli strumenti esistenti, definire metriche di qualità, supervisionare. Non è plug-and-play come spesso ritrae la narrativa di marketing.
Infine, c’è il tema della fiducia e della responsabilità: se un agente scrive o modifica codice che poi va in produzione, chi è responsabile degli errori? Chi verifica i rischi? Questi aspetti organizzativi e legali sono ancora poco esplorati, e l’articolo suggerisce che non basta la pura tecnologia per risolverli.
Forse la modalità più pragmatica per considerare il coding agentico è proprio quella di un “intern intelligente”: qualcuno che richiede supervisione, ma che può contribuire in modo significativo se ben guidato. In questo modo, l’agente diventa una risorsa che, sotto la guida del team esperto, può amplificare la produttività, esplorare alternative, assumere compiti ripetitivi e liberare gli umani per le parti maggiormente strategiche o complesse del lavoro.
In una visione ideale, il processo potrebbe integrarsi così: lo sviluppatore senior definisce l’obiettivo, dà contesto, imposta il framework; l’agente genera una prima bozza, suggerisce modifiche, esegue test, segnala problemi; lo sviluppatore rivede, corregge, integra, decide. L’agente non è più una scatola nera che “fa tutto”, ma uno strumento che collabora attivamente.
Per chi lavora nello sviluppo software o per le aziende che stanno valutando l’adozione del coding agentico, l’atteggiamento dovrebbe essere di prudente entusiasmo. Non è il caso di ignorare la spinta tecnologica, né di demonizzarla prima che abbia realizzato il suo pieno potenziale. Ma è altrettanto importante non farsi sedurre da promesse e iper-ottimismo che non tengono conto delle difficoltà pratiche.
Se il modello resta quello anglosassone delle startup che promettono “codice senza sviluppatori”, ci si espone a delusioni. Invece, se lo si considera come una “evoluzione collaborativa” — un agente che lavora con noi, non al nostro posto — allora si può costruire un percorso più realistico e proficuo. Le aziende saranno quelle che sapranno gestire sia la tecnologia che il cambiamento organizzativo: adeguare processi, definire ruoli, investire nella supervisione e nella formazione.