In uno scenario globale dove molti governi vogliono rivendicare il diritto di disegnare, gestire e controllare l’intelligenza artificiale del proprio paese, emerge un dibattito importante: fino a che punto l’“AI sovrana” non è soltanto un’etichetta accattivante, utile per legittimare investimenti pubblici e attirare attenzione, piuttosto che un obiettivo tecnologico realmente perseguibile?
L’idea di IA sovrana sta guadagnando consenso: essa implica che lo Stato, o le strutture nazionali, siano in grado non solo di raccogliere dati e regolare il loro uso, ma di costruire internamente modelli di intelligenza artificiale, infrastrutture, algoritmi e ecosistemi tecnologici autonomi. Questo concetto è stato promosso con forza da NVIDIA, il cui CEO Jensen Huang ha usato più volte il termine nei suoi discorsi, trasformandolo da concetto astratto a slogan politico e tecnologico.
Ma al cuore del discorso c’è chi mette in discussione la sostanza dietro la parola “sovranità”. Lennart Heim, ricercatore del think tank RAND Corporation, ha dichiarato in un’intervista che “IA sovrana” è spesso più marketing che realtà: molti governi infatti non hanno chiaro l’obiettivo ultimo, né dispongono dei mezzi per costruire ed evolvere modelli che possano competere con le grandi piattaforme internazionali. Questa è la cruda domanda che, secondo lui, molti paesi devono porsi: cosa vogliamo ottenere con queste spese colossali?
Anche Keegan McBride, esperto in politiche tecnologiche, sostiene che creare modelli di grandi dimensioni competitivi è una sfida che pochi governi possono permettersi, per costi, competenze e infrastrutture necessarie.
Se consideriamo il modo in cui il concetto di “IA sovrana” è stato promosso da NVIDIA, appare evidente una certa strategia: spingere i governi verso la necessità di costruire infrastrutture, data center e modelli locali, ma – nella maggior parte dei casi – con chip, hardware e tool che portano il marchio NVIDIA. In altre parole, dietro molti progetti di “autonomia” giace un forte coinvolgimento delle tecnologie americane o di grandi aziende globali.
Nel contesto europeo, per esempio, il discorso sull’IA sovrana ha avuto risonanza: leader e istituzioni si sono mostrati interessati all’idea di ridurre la dipendenza da hyperscaler statunitensi e di promuovere industrie locali. Tuttavia, molti analisti avvertono che senza una filiera propria di semiconduttori, una base solida di ricerca e investimenti coerenti, l’“autonomia” resta fragile. In Francia e Germania si stanno progettando centri di calcolo e collaborazioni con aziende come Mistral AI, ma il rischio è che la componente più strategica — i chip, la progettazione dei modelli — resti in mano a partner esterni.
Il Peterson Institute, con Martin Chorzempa, sottolinea che la strategia di NVIDIA non è dissimile da quella che hanno seguito altri colossi tecnologici: offrire infrastrutture, servizi e soluzioni che diventino indispensabili, anche all’interno dei progetti che vantano “sovranità”.
Anche OpenAI ha esplorato il concetto: durante una visita in Germania, Sam Altman ha parlato di un “Sovereign Cloud” per il settore pubblico tedesco, suggerendo che anche chi promuove modelli globali può offrire versioni “nazionali” di queste tecnologie.
Dietro il fervore politico e mediatico, però, emergono ostacoli concreti: costruire data center di grande scala non basta; è necessario padroneggiare il design dei chip, la ricerca sui modelli, il training su larga scala, la manutenzione, la manutenzione continua, la correzione degli errori, la sicurezza, la governance dei dati e l’attrazione di talenti di altissimo profilo. Senza uno sforzo coordinato e risorse vere, l’autonomia digitale può restare il miraggio di uno slogan pubblicitario. Alcuni investitori già stimano che il mercato dell’IA sovrana possa crescere fino a 50 miliardi di dollari, ma questo è solo una frazione delle cifre che le grandi aziende del settore annunciano per i progetti globali.
Insomma, “AI sovrana” ha tutto il sapore di una promessa: promessa di controllo, promessa di indipendenza, promessa di progresso tecnologico nazionale. Ma come spesso accade con le promesse ambiziose, la distanza tra slogan e realizzazione è ampia.