Immagina un’orchestra in cui non è il direttore umano a scegliere quale strumento entra in scena, ma un altro musicista che decide al volo, ascoltando l’andamento della melodia e destinando violini o trombe a seconda del tono dell’aria. Questo è l’analogo dei model router nei sistemi di intelligenza artificiale più avanzati: algoritmi che scelgono, per ogni richiesta dell’utente, quale modello (o sottosistema) debba occuparsi del compito.
Invece di un sistema monolitico che affronta ogni richiesta, oggi si preferisce uno scenario multi-modello: alcuni modelli sono rapidi ma superficiali, altri lenti ma profondi. Il router valuta fattori come la complessità della richiesta, il contesto, l’urgenza, e instrada il flusso verso il modello più adatto — ad esempio, un “lightweight” per risposte veloci e generiche, o un modello sofisticato per compiti ragionati. E tutto ciò avviene con l’obiettivo di ottimizzare trade-off tra accuratezza, velocità e costi.
Fin qui, tutto suona efficiente, quasi elegante. Ma c’è un rovescio della medaglia: i router non sono rigidi, bensì apprendono, spesso dai comportamenti degli utenti—se un modello viene rifiutato o scambiato frequentemente, il router registra il segnale. Nel tempo, questa dinamica alimenta un ciclo di auto-rinforzo: il sistema sceglie un modello, l’utente reagisce—il router apprende, e sceglie in base a quello.
Il pericolo? Nascosta sotto il velo della sicurezza e dell’efficienza, si annida una feedback loop, capace di amplificare pregiudizi, punti deboli o comportamenti subottimali. Un po’ come quando un algoritmo di raccomandazione propone sempre lo stesso tipo di contenuti: l’utente clicca di più, il sistema impara che è quello che vuole, e innesca una spirale autoreferenziale. I model router possono cadere nella stessa trappola, privilegiando costantemente una via già battuta invece di esplorare soluzioni differenti o migliori.
Il problema non è immediato da identificare: questi loop hanno un’evoluzione silenziosa, lenta, insidiosa. Il sistema “si auto-ottimizza”, ma verso una sua zona di comfort, non necessariamente verso il meglio.
Questo fenomeno si intreccia con un altro trend emergente: la tendenza dell’AI a consumare i propri output come dati di addestramento. Studi recenti, come quelli citati da VentureBeat o Scientific American, parlano di “model collapse”, una progressiva degradazione delle capacità creative e rappresentative degli AI generativi quando vengono allenati su contenuti generati da AI precedenti. In pratica, l’IA inizia a “perdere la capacità di rappresentare la realtà” con precisione, producendo testi sempre più simili tra loro e sempre meno ancorati ai dati reali.
Immagina una catena di copie di copie: chi copia da una copia di una copia finirà con un’immagine sfocata, imprecisa. Così, generazione dopo generazione, l’AI rischia di allontanarsi dalla varietà, dal dettaglio, dalla verità stessa dei dati.
Ma non tutto è perduto. La comunità di ricerca ha già individuato contromisure pratiche. Ad esempio, conservare una versione “pura” del dataset originale (creato da umani) e riaddestrare periodicamente i modelli con esso, oppure integrare costantemente nuovi dati umani non contaminati da output AI. Anche se richiede uno sforzo maggiore, così si rallenta la deriva auto-referenziale.