Negli ultimi mesi si è diffusa una voce intrigante nel mondo dell’intelligenza artificiale: OpenAI non si accontenterà di far girare modelli su server remoti, ma vuole portare ChatGPT “in hardware”, un dispositivo fisico in cui il software e l’intelligenza conversazionale siano incarnati. Il progetto, sviluppato in collaborazione con Jony Ive, punta alto: un assistente AI sempre presente, discreto ma intelligente. Tuttavia, le difficoltà tecniche non mancano, e alcuni recenti rapporti svelano gli ostacoli che OpenAI deve superare prima di consegnare questo sogno tecnologico agli utenti.
Il legame tra OpenAI e Jony Ive ha attirato grande attenzione quando la società ha acquisito la startup io, fondata dall’ex designer di Apple, in un accordo da 6,5 miliardi di dollari. Ive, tramite il suo studio LoveFrom e il team di io, assumerà responsabilità creative e di design all’interno di OpenAI, anche se continuerà a operare in maniera indipendente.
L’intento dichiarato è sviluppare una “famiglia di dispositivi AI” che vada oltre lo schermo tradizionale, in cui l’assistente digitale non sia collegato a un’app o a un browser, ma sia una presenza costante, attenta al contesto ambientale, che interagisca mediante microfoni, fotocamere e sensori.
Si parla di device dalle dimensioni simili a uno smartphone, ma senza display, e con un’architettura che consenta di rispondere all’utente attraverso voce e percezione ambientale. Per ricevere comandi vocali, essere sempre pronti all’ascolto e utili all’utente senza diventare invadenti: questa è la sfida.
Uno dei problemi segnalati riguarda la “voce” del dispositivo: non basta che parli bene, deve anche sapere quando fermarsi. In una chat testuale, è più facile controllare lunghezze e ritmi. In un dispositivo conversazionale, risposta troppo lunghe o interventi superflui rischiano di diventare fastidiosi o di interferire con altri compiti ambientali. Secondo persone informate sul progetto, sviluppare regole che evitino che l’IA “parli troppo” o rimanga in loop conversazionali è un compito arduo.
Un’altra questione delicata è la personalità del modello: troppo adulatore, troppo diretto o troppo servile sarebbe eccessivo; troppo neutro rischia di risultare freddo e poco utile. Il giusto equilibrio è difficile da calibrare. Una persona che segue il progetto ha dichiarato che il dispositivo non deve diventare una “fidanzata AI” strana, bensì un “amico del computer”, simile a Siri ma migliore.
Ci sono inoltre ambiguità su come il dispositivo riconosca i momenti in cui attivarsi: non deve intervenire ogni volta che l’utente respira o emette un suono, ma nemmeno ignorare quando si vuole attivare. Stabilire regole di contesto robusto, per cui il sistema sappia “è il momento giusto”, è una complessità da risolvere.
Mettere l’IA nella “macchina fisica” non è solo un problema di interfaccia, ma di hardware e infrastruttura. Fonti vicine al progetto affermano che OpenAI sta faticando a garantire la potenza di calcolo necessaria per far girare modelli complessi su un dispositivo portatile o semi-portatile. Mentre Amazon e Google hanno già ampie risorse per mettere AI in smart speaker o dispositivi integrati, OpenAI sta sviluppando un dispositivo che, pur essendo autonomo, dipenda da risorse di calcolo efficienti e ben integrate.
Parimenti, la protezione dell’infrastruttura — ossia la sicurezza delle comunicazioni, l’isolamento tra dati privati e la gestione dei sensori — è un nodo cruciale. Un dispositivo “sempre attivo” raccoglie dati continuamente: fotocamere, microfoni, sensori ambientali. Come garantire che queste informazioni non vengano usate impropriamente o non possano essere compromesse? Le fonti indicano che questo è uno degli ostacoli che rallentano il progetto.
Sul fronte del design e della produzione, OpenAI ha già avviato collaborazioni con produttori hardware. Ad esempio, è stato riportato che l’azienda ha stretto accordi con Luxshare, noto assemblatore utilizzato da Apple, per costruire il prototipo del dispositivo. Inoltre, OpenAI ha preso contatti con Goertek, fornitore di moduli audio/fotocamera, per integrare componenti.
Non sorprende che il progetto abbia richiesto l’arruolamento di ingegneri esperti di hardware e design, molti dei quali provengono da Apple. Il know-how di produzione su scala industriale è un tassello imprescindibile per trasformare il prototipo in un gadget vendibile.
Quanto al lancio, le stime indicano una finestra temporale tra fine 2026 e inizio 2027. Ma queste date sono indicative: data la complessità tecnica, non è da escludere che possano slittare.
Se si guarda al progetto con occhi pragmatici, l’ambizione di OpenAI è costruire qualcosa che non domini l’utente, ma che lo accompagni, che impari dall’ambiente e dai comportamenti, che offra risposte utili al momento giusto, senza diventare fastidioso. Un assistente silenzioso, ma presente, capace di rimodulare la conversazione, capire quando ascoltare, quando intervenire e quando tacere.
L’idea di un’assistente “sempre attivo” con memoria ambientale richiama concetti futuristici: costruire una “coscienza contestuale” che sappia cosa l’utente stia facendo, cosa ha appena fatto, cosa intende fare. Ma questo implica bilanciare privacy, latenza, potenza, efficienza. Se l’assistente cominciasse a intervenire quando non serve, o a “parlare troppo”, perderebbe il suo fascino. Se restasse troppo assente, apparirebbe inutile.
Le prime voci indicano che il dispositivo non avrà schermo, ma potrà essere attivato vocalmente e si base su sensori e moduli multimediali. Le forme saranno compatte, forse assimilabili a uno smartphone senza display, forse anche con più fotocamere per percepire l’ambiente circostante.
Potrà operare in modalità “always on”, raccogliendo segnali durante il giorno e costruendo una memoria dell’utente, ma solo nella misura consentita dalla privacy e dalla potenza tecnica.
OpenAI, con Jony Ive e con l’integrazione del team io, ha le risorse e la visione per tentare questo salto. Ma il cammino è lastricato di nodi tecnici da sciogliere: voce naturale, personalità bilanciata, efficienza energetica, sicurezza, infrastruttura computazionale. Il tempo dirà se il prototipo si trasformerà in realtà.