Nel settore della musica in streaming, Spotify ha annunciato un giro di vite deciso contro uno dei problemi più insidiosi e “invisibili”: lo spam musicale e le frodi orchestrate con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. È una battaglia che si combatte nella zona grigia tra tecnologia e diritto d’autore, tra creatività e manipolazione.
L’occasione per questo cambio di passo l’ha fornita Charlie Hellman, vice president Global Head of Music Product di Spotify, il quale ha comunicato che “nell’ultimo anno abbiamo rimosso più di 75 milioni di tracce musicali spam dalla piattaforma”. Un numero impressionante, che da solo suggerisce quanto vasta sia la pressione che Spotify sta tentando di contrastare.
Spotify non si pone in modo oppositivo nei confronti dell’intelligenza artificiale: Hellman riconosce che l’IA può avere un valore creativo legittimo, che può essere uno strumento innovativo al servizio degli artisti. Il problema emerge quando l’IA viene impiegata per scopi fraudolenti, cioè per produrre “musica spazzatura”, tracce generate in massa con algoritmi, cloni vocali, o contenuti ingannevoli che somigliano a quelli degli artisti reali.
In molti casi, si tratta di contenuti realizzati più per “riempire” playlist, scalare classifiche o ingannare gli algoritmi di raccomandazione, che per essere veri contributi artistici. Quello che Spotify chiama “slop IA” (una “sbobba” generata da IA in grande quantità) è proprio quel flusso di materiale di qualità bassa, duplicato, spesso senza un autentico contenuto creativo dietro, che però occupa spazio, consuma risorse, e può distrarre o confondere gli ascoltatori.
Ma vi è un altro aspetto ancora più pericoloso: le frodi basate sull’impersonificazione. Con tecniche di deepfake vocali o modelli generativi avanzati, qualcuno potrebbe clonare la voce di un artista senza autorizzazione e farla sembrare reale. In questo caso, l’identità artistica stessa viene usata come merce, come un bene riutilizzabile: un uso illecito che mina l’autorevolezza, il valore e soprattutto i diritti economici degli artisti legittimi.
Spotify ha già in cantiere alcune mosse precise per frenare queste anomalie. A partire dall’autunno, verrà introdotto un filtro anti-spam “progressivo”, capace di individuare chi carica in modo fraudolento musica sospetta. Le tracce identificate verranno taggate e non verranno raccomandate – insomma, perderanno visibilità. Nella fase iniziale questa misura sarà “conservativa”, per evitare di segnalare contenuti legittimi come falsi positivi.
Parallelamente, Spotify ha reso più esplicita una nuova policy contro l’impersonificazione: gli artisti potranno reclamare se qualcuno pubblica opere generate dall’IA fingendo di essere loro. Solo nei casi in cui un artista autorizzi un utilizzo “clonabile” della propria voce, l’impersonificazione potrà essere accettata.
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Un altro aspetto rilevante è la trasparenza: Spotify collabora con DDEX (il consorzio che si occupa di standard per metadati musicali) per elaborare un “etichettaggio IA” nei crediti delle tracce. In sostanza, l’idea è che in futuro si possa sapere, per ogni brano, se e come l’IA è intervenuta (per voce, strumenti, mastering). In questo modo, chi ascolta può essere informato e gli artisti possono decidere liberamente se adottare l’IA – con chiarezza, non in modo nascosto.
Spotify ribadisce inoltre che non produce musica propria: la piattaforma rimane un servizio che ospita musica concessa in licenza, paga le royalty in base al coinvolgimento degli ascoltatori, e tratta le tracce con parità, indipendentemente da come siano state realizzate.
Il problema non è solo tecnologico: è soprattutto un problema di giustizia, economia e credibilità nel mondo della musica. Se chi carica contenuti fraudolenti (o clona voci) riesce a incassare royalties, automaticamente sottrae risorse e visibilità agli artisti che operano onestamente. E quando gli ascoltatori trovano nei cataloghi tracce confuse, duplicate o di qualità scadente, l’esperienza utente si deprezza – un danno per il servizio stesso.
Inoltre, lo scenario che Spotify delinea è anche il segno che la tecnologia può diventare arma se non regolamentata: con modelli IA avanzati, la creazione musicale può essere “democratizzata”, ma anche abusata, manipolata, strumentalizzata. Diventa urgente ritrovare un equilibrio tra innovazione e tutela.
La sfida che Spotify si mette davanti è dunque enorme: ridurre il “rumore” indesiderato, proteggere l’identità artistica, creare standard di trasparenza, e allo stesso tempo non soffocare l’uso creativo e le opportunità che l’IA può offrire. È una sfida di fiducia, e il successo – per tutti gli attori del settore — dipenderà dalla qualità degli strumenti, ma anche dalla collaborazione con etichette, artisti, distributori e dalla vigilanza costante.