Il 19 settembre il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che potrebbe cambiare il volto della tecnologia globale. La misura impone una quota annuale di 100.000 dollari per i nuovi richiedenti il visto H-1B, lo strumento attraverso il quale le grandi aziende statunitensi hanno per anni attratto lavoratori qualificati, soprattutto da India e Cina. Non si tratta di una questione puramente amministrativa: è una scossa che attraversa tanto i corridoi delle big tech americane quanto gli uffici delle startup AI indiane.
Il visto H-1B, limitato ogni anno a 85.000 unità, è stato per decenni la chiave che ha consentito a società come Google, Amazon, Microsoft, Meta e Apple di assicurarsi i migliori ingegneri del mondo. L’India da sola detiene il 71% dei visti rilasciati lo scorso anno, seguita dalla Cina con l’11,7%. La nuova tassa, che la Casa Bianca giustifica come un modo per garantire che gli H-1B siano usati per attrarre veri talenti e non per sostituire lavoratori americani, rischia però di trasformare questo strumento da ponte a barriera. I commenti del Segretario al Commercio Howard Rutnick, secondo cui “bisogna istruire gli americani” invece di far entrare stranieri che “vogliono rubarci il lavoro”, mostrano chiaramente il tono politico dell’operazione. Parallelamente, lo stesso Trump ha introdotto la cosiddetta “Gold Card”, una residenza permanente accessibile con un investimento da un milione di dollari, destinata a chi può permettersi di comprare l’ingresso.
Le prime reazioni non si sono fatte attendere. Le big tech americane hanno avvertito i titolari di visti di restare nel Paese per evitare complicazioni, mentre investitori come Didi Das di Menlo Ventures hanno denunciato il rischio di minare la capacità degli Stati Uniti di attrarre i migliori talenti globali. La crescita del settore STEM americano dal 2000 al 2019, aumentata del 44,5%, si è basata in larga parte sull’apporto di circa 2,5 milioni di professionisti stranieri. Limitare questo flusso potrebbe avere conseguenze dirette sull’innovazione.
Dall’altra parte dell’oceano, in India, la notizia ha colpito un settore tecnologico che vale 283 miliardi di dollari e che dipende profondamente dal mercato statunitense. Le grandi società IT, che tradizionalmente fanno largo uso di visti H-1B per esportare servizi, hanno reagito con preoccupazione per i costi aggiuntivi e per la sostenibilità dei loro modelli. Le startup AI, invece, si trovano in una posizione diversa. Secondo analisti e venture capitalist, queste realtà più giovani e flessibili non puntano necessariamente sugli H-1B per assumere personale: usano spesso visti a breve termine per i fondatori o i dirigenti chiave, con l’obiettivo di incontrare clienti o investitori. La nuova tassa non le colpisce quindi allo stesso modo delle grandi aziende, ma impone comunque riflessioni profonde.
Per una startup emergente, 100.000 dollari rappresentano una cifra enorme, spesso incompatibile con bilanci già fragili. Doversi sobbarcare un costo simile per ogni spostamento di talenti rischia di rendere antieconomica la presenza fisica negli Stati Uniti, con conseguenze sulla possibilità di stringere partnership, negoziare contratti o partecipare a eventi cruciali per la visibilità. Tuttavia, diversi investitori leggono la situazione come un’opportunità: se diventa più difficile e costoso andare all’estero, allora l’India deve rafforzare i propri ecosistemi locali, costruire hub di ricerca e sviluppo, trattenere i migliori ingegneri invece di perderli. La tassa H-1B, paradossalmente, potrebbe accelerare il consolidamento dell’India come polo autonomo di innovazione.
La verità sta probabilmente nel mezzo. Le grandi società vedranno i loro margini erosi e saranno costrette a rivedere strategie e investimenti, mentre le startup AI più resilienti troveranno nuovi modi di crescere, magari valorizzando la prossimità al proprio mercato interno. Ma resta il rischio che le barriere burocratiche accentuino la disparità tra chi ha già accesso a capitali, reti e contatti e chi invece sta cercando di emergere. In questo senso, la tassa potrebbe ridisegnare non solo i rapporti tra Stati Uniti e India, ma anche gli equilibri interni dell’ecosistema tecnologico indiano.