Nell’intelligenza artificiale e nell’analisi aziendale, uno dei problemi più ostici e sottili non è la scarsità di dati, ma la frammentazione semantica: ogni strumento, ogni piattaforma e ogni team tende a definire metriche, concetti e logica aziendale con sfumature proprie. Ciò genera disallineamenti che, quando l’AI entra in gioco, diventano un freno concreto all’adozione, alla fiducia e all’efficacia. È in questo contesto che è emersa, di recente, un’iniziativa di grande ambizione: Open Semantic Interchange (OSI), promossa da Snowflake insieme a Salesforce, dbt Labs, BlackRock e altri partner.
OSI non è un semplice tentativo di costruire un nuovo strato software o di proporre una libreria proprietaria: è un progetto che aspira a ridefinire i fondamenti di come i dati — in particolare i metadati e la semantica aziendale — vengano interpretati, scambiati e compresi nell’ecosistema dell’AI e dell’analisi. Si tratta di un’iniziativa open source, pensata per essere vendor-neutral, ovvero non schiava di un’unica azienda o tecnologia.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una moltiplicazione di strumenti per l’analisi dei dati, modelli di intelligenza artificiale, piattaforme BI, pipeline ETL e così via. Ogni strumento definisce concetti come “cliente attivo”, “transazione valida”, “margine operativo” o “tasso churn” secondo regole proprie: un team marketing può usare una definizione di “cliente attivo” diversa da quella usata dal reparto vendite, e l’AI che aggrega quei dati finirà per costruire modelli ambigui, incoerenti e poco affidabili.
Le imprese spesso si scontrano con tempi lunghi per riconciliare queste definizioni: settimane (o mesi) di lavoro manuale su mappe di significato, tabelle intermedie, controlli incrociati, riscritture di codice. Per l’AI questo è un costo nascosto, ma pesantissimo: riduce la velocità di sviluppo, aumenta l’errore, mina la fiducia nei risultati e rende l’adozione massiva meno sostenibile.
OSI vuole intervenire proprio su questo punto: proporre una specifica semantica unificata, una sorta di “lingua comune” che tutti gli strumenti possano usare per interpretare business logic, metadati e relazioni aziendali. In altri termini, non solo “scambiare dati”, ma “scambiare significati”.
Dietro OSI si è formata una coalizione variegata, che va oltre i grandi titoli noti. Snowflake guida l’iniziativa, accompagnata da Salesforce, dbt Labs, BlackRock e RelationalAI, insieme a molte altre realtà tra cui Alation, Atlan, Blue Yonder, Hex, ThoughtSpot, Sigma e molte altre. Questa scelta non è secondaria: serve che l’iniziativa contenga contributi, esigenze e visioni provenienti da contesti diversi, affinché la semantica non resti una versione “aziendale proprietaria”, ma divenga uno standard vero.
La logica è che, se tante aziende contribuiscono e adottano, OSI può diventare un punto di convergenza neutrale: uno standard che non “appartiene” a nessuno ma è utile a tutti.
OSI punta su un modello semantico descritto in modo leggibile, basato su formati come YAML, che definiscono metriche, business logic, sinonimi, relazioni concettuali e altre informazioni utili all’interpretazione corretta dei dati. In pratica, ogni elemento — una misura, una dimensione, una relazione — può essere descritto e codificato in modo che gli strumenti lo capiscano allo stesso modo.
Un aspetto cruciale è che OSI si concentra non solo sui metadati tecnici, ma su metadati semantici, ovvero il “significato” dei dati: cosa rappresentano, come si relazionano tra loro, quali regole aziendali governano le loro trasformazioni. Questo è importante perché molti modelli di AI cercano di “indovinare” relazioni semantiche proprio quando non sono descritte, con il rischio di errori di interpretazione.
Inoltre, OSI si propone di integrarsi fin da subito con strumenti esistenti: dbt Labs, ad esempio, potrà sfruttare il modello semantico per definire metriche una sola volta e renderle disponibili su altre piattaforme, senza dover ridondare definizioni o scrivere codice duplicato.
Se OSI riesce nella sua missione, le conseguenze potrebbero essere profonde. Prima di tutto, le aziende avranno la possibilità di adottare strumenti diversi nell’ecosistema dati e AI senza che il cambio di piattaforma richieda rifacimenti semantici. Potranno sostituire un tool di BI senza riscrivere tutte le metriche, oppure combinare modelli AI e reportistica in modo più fluido.
In secondo luogo, un livello semantico standardizzato può facilitare la fiducia negli output dell’AI: quando una previsione o un insight è supportato da definizioni chiare e condivise, è più facile spiegare, revisionare o contestare quel risultato. Ciò è particolarmente rilevante in settori regolamentati come finanza, sanità o compliance, dove le decisioni AI devono essere tracciabili e interpretabili.
Nelle finanze, per esempio, BlackRock è coinvolta con il proprio strumento Aladdin, che già oggi integra dati finanziari complessi e relazioni tra mercati pubblici e privati. Avere un linguaggio semantico comune può rendere più agevole combinare dati esterni, modelli AI e reportistica interna, riducendo errori e tempi di riconciliazione.
C’è poi un aspetto culturale e strategico: molte aziende concepiscono un “vendor lock-in” (restare legate a un unico fornitore) proprio nei metadati e nelle semantiche proprietarie. OSI tenta di rompere questo legame, offrendo una “infrastruttura semantica” aperta che non vincola a nessuna piattaforma. Se la comunità appoggia l’iniziativa e la adotta, potrebbe costituire un cambio di paradigma nel modo in cui si costruiscono ecosistemi dati.
Una visione così ambiziosa non è priva di ostacoli. Il primo è la governance: chi decide come evolvere lo standard? Come si gestiscono le modifiche e le nuove richieste provenienti da settori molto differenti? Per mantenere OSI credibile, è essenziale che nessun attore prevalga sugli altri e che le evoluzioni siano trasparenti e collaborative.
Un’altra sfida è convincere le aziende a investire in definizioni semantiche corrette e a migrarle da sistemi già esistenti, anche se complicati. Imprese con decenni di strutture dati accumulate potrebbero valutare costose le migrazioni semantiche rispetto a restare nei silos attuali.
Inoltre, nei casi in cui le business logic sono complesse, soggette a frequenti cambiamenti o cambiano in funzione del contesto (mercato, normativa, stagionalità), mantenere la coerenza semantica può richiedere sforzi continui. OSI deve essere sufficientemente flessibile da adattarsi a queste variazioni senza perdere robustezza.
Infine, il successo dipenderà dall’adozione: uno standard, per essere utile, deve essere largamente usato. Se rimane confinato a pochi grandi attori, non risolve il problema fondamentale della frammentazione. La sfida è stimolare una comunità ampia di adozione, contribuendo in modo che OSI diventi infrastruttura comune, non un esperimento settoriale.
L’iniziativa Open Semantic Interchange sembra incarnare un’idea che spesso rimane confinata ai discorsi teorici: che per far funzionare seriamente l’AI nelle imprese serva qualcosa di più della potenza computazionale, dei modelli e dei dati. Serve una base condivisa di significato, un “terreno comune semantico” su cui far dialogare modelli, pipeline, report e insight.
Se OSI riuscirà a costruire questa base in modo partecipato, robusto e neutrale, potrebbe diventare una pietra miliare nel percorso di maturazione dell’AI aziendale. Se invece resterà limitato a pochi ambienti, rischia di essere un buon esperimento ma senza l’impatto trasformativo atteso.
Ad ogni modo, il fatto che player come Snowflake, Salesforce, dbt Labs e BlackRock stiano lavorando insieme su questo fronte segnala che l’industria comincia a vedere la semantica dei dati non come un fronzolo tecnico, ma come parte centrale dell’infrastruttura dell’IA.