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Rodney Brooks — figura leggendaria nel mondo della robotica, fondatore di iRobot e per decenni docente e ricercatore al MIT — ha alzato la voce con una critica netta e ben argomentata: investire ingenti somme oggi su robot umanoidi che replicano la forma umana “standard” è una strategia destinata a fallire. Secondo lui, tra quindici anni vedremo sì dei robot “umanidi”, ma non quelli che abbiamo sotto gli occhi oggi: saranno diversi, più funzionali, meno vincolati alla forma umana tradizionale.

Nel suo saggio intitolato “Why Today’s Humanoids Won’t Learn Dexterity”, pubblicato sul suo blog personale, Brooks espone con chiarezza le ragioni del suo scetticismo. La sua analisi parte da un punto fondamentale: replicare il “tatto umano” è una delle sfide più complesse che la robotica debba affrontare. Le mani che teniamo per scontate sono invece un capolavoro di evoluzione biologica. Brooks ricorda che ogni mano umana contiene circa 17.000 recettori tattili specializzati e decine di gruppi neuronali dedicati — nessun robot attuale si avvicina a questo livello di sofisticazione. Lo scopo di raccogliere dati tattili non è affatto banale, e attualmente il metodo più praticabile consiste nell’utilizzo di guanti sensorizzati che tracciano il movimento umano, ma è ancora lontano dall’imitare la piena gamma della percezione e risposta su oggetti reali.

Brooks mette anche in luce i limiti fisici dei robot bipedi a scala umana. Ancora oggi, far sì che un robot stia in piedi o cammini richiede un dispendio energetico enorme. E il problema si acuisce se pensiamo al “scaling”: un robot doppiamente grande può richiedere fino a otto volte più energia per controllare gli squilibri. Cadute e collisioni rappresentano rischi reali: un robot altezza umana che cade o sbanda potrebbe causare gravi danni. In ambienti condivisi con esseri umani, la sicurezza diventa una barriera insormontabile per molti modelli attuali.

Nel suo saggio, Brooks definisce “fantasia pura” l’aspettativa che basti costruire un robot “simile a un uomo” e poi, con sufficiente addestramento, farlo funzionare perfettamente negli ambienti progettati per esseri umani. Secondo lui, questa idea non tiene conto della rigidità dei vincoli fisici, dell’energia necessaria, della complessità dei sensori tattili e della varietà di manipolazione oggetti.

Ma Brooks non è condannatorio: non esclude la diffusione futura degli “umanoidi”, solo che non saranno come li immaginiamo oggi. Prevede che i robot evolveranno in forme ibride: ruote per la locomozione, braccia multiple con varietà di grippers (anche ventose o due dita anziché cinque), sensori distribuiti — “occhi” sul palmo della mano o vicino al suolo, telecamere in posizioni non convenzionali. Questi robot, pur non somigliando più strettamente a un essere umano, verranno comunque chiamati “umanoidi” nel senso tecnologico del termine. Brooks immagina un panorama in cui la forma segue la funzione: robot specializzati per compiti specifici, più efficaci, più robusti e meno costosi da produrre e mantenere.

Il messaggio finale è forte: molte delle risorse che oggi le aziende e i finanziatori stanno riversando nei robot umanoidi “alla Tesla / Figure” potrebbero dare più frutti se venissero destinate a ricerca universitaria, a prototipazione di sensori tattili, a studi su modelli ibridi. Brooks suggerisce che l’innovazione vera — quella che ci porterà a robot veramente utili — emergerà da percorsi meno glamour e più tecnici, piuttosto che da scommesse audaci sulla forma umana futuristica.

Questa posizione arriva in un momento in cui le startup di robotica umanoide raccolgono miliardi: Figure AI, ad esempio, ha annunciato un round da 1 miliardo di dollari, con valutazione di 39 miliardi. Brooks invita a riflettere se queste puntate siano lungimiranti o se stiano alimentando una bolla.

Di Fantasy