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Quando la tecnologia e la finzione si intrecciano fino a diventare quasi indistinguibili, nasce una controversia che scuote i fondamenti stessi dell’identità artistica. È quanto sta accadendo nel cuore dell’industria cinematografica internazionale, con un avatar digitale che si presenta al mondo come attrice, cerca un’agenzia e scatena reazioni emotive e legali. Il suo nome è Tilli Norwood, e dietro di lei c’è il progetto ambizioso dell’azienda olandese Particle6.

L’annuncio è stato già di per sé sorprendente: Tilli Norwood — creata interamente con intelligenza artificiale — cerca una casa rappresentativa nel mondo dello spettacolo. È un avviso al settore: “Ecco una nuova artista, senza carne né ossa, plasmata da codici e dati”. Ma la reazione è stata immediata e feroce.

Emblematico è stato il commento dell’attrice Emily Blunt, che è venuta a conoscenza di Tilli Norwood nel corso di un podcast. Racconta di essersi sentita spiazzata e preoccupata: “My God, we’re doomed. It’s really scary,” ha detto, esprimendo la sua convinzione che le agenzie dovrebbero semplicemente rifiutare contratti con entità artificiali per proteggere l’elemento umano nel mondo dell’arte. In parallelo, il potente sindacato statunitense dei performer, SAG-AFTRA, ha pubblicato un comunicato fermo: Tilli non è un’ “artista”, ma un’entità costruita imitandola, un programma che ha assorbito l’arte degli attori reali senza permesso, e che rischia di rubare lavori, guadagni e dignità a chi ha vissuto il mestiere per anni.

La posizione del sindacato si fonda su un argomento che va ben oltre il simbolismo: Tilli Norwood non ha vissuto, non ha emozioni, non ha esperienze reali. I suoi gesti vengono modellati da dati, i suoi sguardi programmati, il suo “spirito” simulato. Eppure, si presenta come se fosse in piena carne, pronta a calcare il red carpet. Per i sindacati, è una forma di appropriazione non autorizzata: una “riproduzione” di abilità e stile che nasce dall’analisi delle performance di attori reali, senza consenso né riconoscimento.

Dietro Tilli c’è Particle6, che difende la sua creazione come un’opera artistica digitale, una nuova frontiera della creatività. Il suo fondatore Van der Velden ha risposto alle critiche affermando che Norwood non vuole sostituire gli attori umani, ma rappresentare un nuovo mezzo espressivo, un esperimento di arte al confine tra il reale e il virtuale. Ha dichiarato che l’intento non è “usurpare”, ma sperimentare un nuovo linguaggio, una creatura artistica che coesiste con gli artisti in carne e ossa.

Tra le voci contrarie spicca quella della scrittrice e attrice Natasha Lyonne, che ha chiesto uno stop immediato: chi collabora con Norwood — ha detto — dovrebbe essere boicottato dall’industria. Secondo lei non basta che l’avatar sia “fascinoso”: serve un codice etico, una regolamentazione, una riflessione profonda su dove comincia l’essere umano e dove inizia la macchina.

La questione investe molteplici dimensioni. C’è quella legale: diritti d’autore, proprietà intellettuale, copie digitali di espressioni umane. C’è quella emotiva: cosa significa “essere attore” in un’epoca in cui l’IA può simulare ogni espressione facciale, ogni intonazione, persino l’“atmosfera di presenza”? C’è infine quella culturale: l’arte, da sempre riflesso dell’esperienza umana, rischia di essere svuotata se il “soggetto” può essere sintetizzato da un algoritmo.

In una prospettiva più ampia, il caso Tilli Norwood è solo la punta dell’iceberg. Già in India e in Bollywood attori famosi denunciano la creazione di video deepfake che li ritraggono senza consenso. Alcuni hanno preso cause legali contro grandi piattaforme, chiedendo che il loro volto non venga usato come “dati di addestramento” per modelli generativi. Il confine tra creatività e sfruttamento, tra immagine e proprietà, sta diventando sempre più labile.

Il mondo dello spettacolo, fino a pochi anni fa, si basava su empatia, presenza, carisma. Oggi deve chiedersi: quanto di quello che vediamo, ascoltiamo e ammiriamo è reale, e quanto è il risultato di un codice ben progettato? Quando un avatar può recitare, sorridere, emozionare — ma non provare nulla — dove colloca il valore autentico?

Il futuro che si annuncia è ambivalente. Da un lato, nuove forme di intrattenimento potrebbero nascere, con attori digitali capaci di muoversi in mondi virtuali senza limiti fisiologici, capaci di collaborare con umani in performance ibride. Dall’altro, c’è il rischio che il “capriccio tecnologico” soppianti l’arte vera, che l’algoritmo diventi l’abile imitatore che assorbe il talento di chi lo ha preceduto.

Alla fine, la domanda che resta aperta è: potremo riconoscere ciò che è reale da ciò che è virtuale?

Di Fantasy