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Nel nuovo ciclo dell’e-commerce, quello in cui a cercare, confrontare e perfino concludere gli acquisti non saranno più soltanto le persone ma anche gli assistenti AI, PayPal ha preso una posizione netta: meglio costruire ponti che aspettare che qualcuno detti le regole definitive. L’azienda presenta un pacchetto di servizi che non prova a imporre un altro standard, bensì a rendere i cataloghi e i pagamenti dei merchant disponibili ovunque, a prescindere dal modello linguistico, dal protocollo o dalla piattaforma conversazionale in cui l’utente si muove. È un cambio di prospettiva che parte da una constatazione semplice: l’ecosistema “agentico” è ancora frammentato e in rapida evoluzione, e chiedere alle imprese di scegliere oggi a quale tavolo sedersi — Google, Microsoft, ChatGPT, Perplexity — significa esporle a un rischio tecnologico inutile. PayPal preferisce un approccio “uno-a-molti”, cucendo integrazioni leggere attorno alle infrastrutture che i merchant già usano e lasciando che siano gli agenti a trovare la via più breve per arrivare alla cassa.

Dentro questa filosofia c’è la coppia di novità che PayPal raggruppa sotto il cappello “Agentic Commerce Services”. La prima, Shop Sync, è l’elemento di scoperta: prende i dati di catalogo, inventario e fulfillment di un’azienda e li rende digeribili dai diversi chat-interface che popolano il mercato, così che un utente possa “vedere” quel prodotto quando chiede a un assistente di trovare una felpa, un trapano o una cover specifica. La seconda, Agent Ready, gioca sul momento della transazione: permette a chi è già merchant PayPal di accettare pagamenti all’interno delle piattaforme AI senza dover rifare l’onboarding ogni volta. La sequenza temporale è chiara: oggi le aziende possono attivare Shop Sync; Agent Ready arriverà nel 2026, coerente con il ritmo con cui le varie piattaforme stanno aprendo ai pagamenti nativi degli agenti. L’idea è che il percorso dall’intento all’acquisto non debba costringere i brand a scommettere su un solo protocollo, ma semmai a parlane tutti “abbastanza bene”.

La parola chiave, ripetuta quasi come un mantra da PayPal, è “flessibilità”. Non si tratta di una formula di comodo: le piattaforme AI stanno correndo in parallelo, ciascuna con proprie doti e proprie preferenze nell’interpretare i dati. Nel frattempo, il livello “di base” che dovrebbe uniformare le transazioni è tutt’altro che consolidato. Google spinge l’Agent Payments Protocol (AP2), OpenAI insieme a Stripe ha messo in campo l’Agentic Commerce Protocol (ACP), Visa lavora al Trusted Agent Protocol: tasselli che cercano di risolvere il problema della fiducia e dell’interoperabilità, ma che, visti da un merchant, suonano come tre scommesse diverse. In questa babele, PayPal prova a fare l’intermediario pragmatico: connettere ciò che già esiste, ridurre le integrazioni ridondanti, e permettere all’AI di trovare i prodotti e pagarli senza “spaccare” i sistemi aziendali.

La scelta si traduce anche in alleanze concrete. Per la parte di discoverability PayPal ha stretto accordi con Wix, Cymbio, Commerce e Shopware, così da esporre i cataloghi verso interfacce conversazionali come Perplexity, dove il servizio è già disponibile e dove, verosimilmente, si testerà la tenuta dello schema prima dell’espansione ad altri ambienti. È un modo per far entrare subito i brand nelle ricerche “parlate” degli utenti, senza aspettare che il settore si accordi su un’unica grammatica tecnica. Intanto, il fatto che PayPal sia tra i partecipanti di AP2 consente di rimanere in prima fila anche sul fronte dei protocolli, ma senza vincolarsi a una sola strada.

A tendere, il tassello dei pagamenti diventerà il vero spartiacque. Se oggi molte esperienze si fermano un passo prima — l’agente suggerisce, compara, indirizza — il 2026 promette il passaggio naturale: pagare dentro la conversazione. Qui PayPal gioca in casa, mettendo a sistema il proprio portafoglio utenti, la rete merchant e la gestione del rischio. Il recente annuncio della collaborazione con OpenAI per portare il checkout istantaneo su ChatGPT, basato proprio su ACP, dà la misura della traiettoria: gli agenti non solo scopriranno i prodotti, ma potranno completarne l’acquisto con pochi passaggi, mantenendo per i brand il controllo della relazione e della first-party data. È un pezzo di strategia che si incastra con il disegno più ampio dell’e-commerce agentico e che spiega perché PayPal parli di ponte tra mondi più che di un nuovo standard.

Resta il nodo della fiducia. L’acquisto mediato da un agente amplifica domande classiche — chi garantisce che il prodotto sia quello giusto? come vengono trattati i dati? — e ne aggiunge di nuove: come distinguere un assistente legittimo da un bot malevolo? come certificare l’intenzione di pagamento? Proprio qui si vede la logica del “non aspettare lo standard”: protocolli come quelli di Visa e OpenAI/Stripe si propongono come telai di garanzia, ma nel frattempo i merchant hanno bisogno di muoversi, e i consumatori di esperienze semplici. La scommessa di PayPal è che si possa iniziare a operare oggi, su più piattaforme, facendo leva sulla propria infrastruttura di risk management e antifrode, mentre il livello di norma comune prende forma. Se e quando un protocollo prevarrà, l’architettura “flessibile” dovrebbe consentire di innestarlo senza rifare tutto da capo.

C’è poi un aspetto industriale che rischia di passare inosservato e che invece merita attenzione. La promessa degli agenti non riguarda solo la vendita “nel momento”, ma l’intero ciclo dell’intento: dal primo spunto alla selezione di alternative, dalla verifica di disponibilità alla combinazione di servizi. È lì che la capacità di connettere dati di catalogo, stock e fulfillment con un repository centrale, pronto per essere “letto” dai modelli, diventa un vantaggio competitivo. Se l’agente capisce che una giacca è disponibile nella taglia richiesta in un punto vendita vicino, che la consegna express costa una cifra ragionevole e che il reso è semplice, la distanza tra desiderio e acquisto si accorcia drasticamente. PayPal prova a costruire proprio quel corridoio, lasciando alla singola piattaforma AI la libertà di usare la “propria” intelligenza, ma uniformando il modo in cui i dati commerciali arrivano all’agente.

Il risultato, se funzionerà, sarà un e-commerce meno dipendente da homepage e vetrine, e più diffuso nei luoghi in cui stiamo già conversando o cercando: app di chat, motori di risposta, interfacce vocali. PayPal, in questo quadro, non prova a essere la “lingua” comune degli agenti, bensì il traduttore simultaneo che permette ai brand di farsi capire a prescindere dalla stanza in cui si parla. È una visione che premia la resilienza all’incertezza più che la purezza architetturale, consapevole che, in un mercato dove le regole si scrivono mentre si usa il prodotto, l’aderenza alle esigenze dei merchant è spesso la migliore bussola.

Ci vorrà tempo prima che l’agente che ci aiuta a pianificare un viaggio, scegliere una lavatrice o prenotare un idraulico parli lo stesso protocollo ovunque. Nel frattempo, chi vende non può permettersi l’immobilismo. Con Shop Sync già attivo su Perplexity e Agent Ready all’orizzonte del 2026, PayPal propone di iniziare subito, con l’infrastruttura esistente, e di lasciare che sia la flessibilità — non lo standard — a guidare la transizione. È una strategia imperfetta ma concreta, costruita attorno a ciò che oggi è possibile e domani sarà più facile integrare. Ed è, soprattutto, un invito a misurarsi con l’AI non come con un canale in più, ma come con il nuovo tessuto connettivo del commercio digitale.

Di Fantasy