Negli ultimi mesi, molte imprese hanno investito cifre ingenti in agenti AI e infrastrutture per trasformare i propri processi — automazione, automazione intelligente, “digital employees”. Ma, come racconta un recente pezzo su VentureBeat, la ragione per cui spesso questi progetti falliscono o rimangono sulla carta non sta nella potenza dei modelli, bensì in un problema molto più banale eppure fondamentale: la comprensione del significato dei dati.
I sistemi moderni — anche quelli più evoluti — sono bravi a “processare” testo, numeri, istruzioni, ma faticano a interpretare correttamente cosa quei dati rappresentano in un contesto aziendale reale: quando si parla di “cliente” o di “prodotto”, le definizioni variano sensibilmente da reparto a reparto, da sistema a sistema. Ciò che per un CRM è “cliente potenziale”, per il sistema finanziario può essere “cliente pagante”: se non si chiarisce il significato, l’agente rischia di confondere i due mondi, generando errori, report fuorvianti, decisioni sbagliate.
Per superare questa fragilità è cruciale introdurre una struttura di significato condivisa: una “vocabolarizzazione” del business, in cui concetti, relazioni, ruoli, dati vengono definiti in modo univoco, coerente, e formalizzato. Questo concetto prende il nome di Ontology — non nel senso filosofico del termine, ma come rappresentazione formale delle entità e delle relazioni rilevanti per un’azienda. In pratica, un “riferimento unico” che aiuta gli agenti AI a interpretare i dati non come semplici valori, ma come elementi dotati di significato, inseriti in un contesto coerente e condiviso.
Un’architettura che poggia su un’ontologia come “single source of truth” può davvero fare la differenza. Costruire un grafo di conoscenza (knowledge graph) oppure un sistema di etichette e classificazioni coerenti aiuta a dare all’agente le “guard-rail” — le protezioni, le regole — necessarie per operare in modo affidabile anche quando deve combinare dati da sistemi diversi o interpretare processi complessi. In un’azienda medio-grande, dove i reparti non parlano sempre la stessa lingua e le definizioni cambiano, questa struttura diventa indispensabile per evitare fraintendimenti, errori, decisioni automatiche discutibili.
Questo approccio richiede certo un investimento iniziale — non è immediato come “provare un prompt e vedere cosa succede”. Serve lavoro di “mappatura semantica”, definizione di regole, classificazione. Il carico iniziale è più alto, ma i benefici emergono già quando l’organizzazione cresce, si evolvono i processi, cambia il perimetro dei dati: gli agenti restano consistenti, affidabili, comprensibili. Non più “demo folli” o proof of concept, ma automazione concreta, integrata, scalabile.
Se l’entusiasmo per l’AI e gli agenti autonomi è giustificato, la loro affidabilità dipende meno da quanta “potenza” hanno sotto il cofano e molto di più da quanto chiaro e coerente è il significato dei dati che manipolano. L’ontologia — intesa come struttura di significato e regole comuni — non è un dettaglio opzionale, ma il guardrail reale che trasforma l’AI da esperimento affascinante in strumento operativo su cui fare affidamento in imprese complesse e strutturate come la tua.
Quando si decide di introdurre agenti AI in un’azienda, la parte più complessa non è quasi mai l’AI in sé, ma ciò che le resta intorno: il significato dei dati, la coerenza delle informazioni, la capacità di legare insieme sistemi che parlano lingue differenti. Un’agente intelligente non può improvvisare ciò che l’azienda stessa non ha chiarito. Per questo, costruire un’ontologia non è un lavoro astratto, ma un processo molto concreto che parte dalla realtà del business e che, passo dopo passo, permette agli agenti di muoversi in modo affidabile.
Il primo passaggio utile è comprendere quali entità rappresentano davvero il cuore dell’organizzazione. Ogni impresa ha concetti che la definiscono: un’azienda manifatturiera avrà prodotti, lotti, componenti, cicli di lavorazione; una che si occupa di logistica avrà spedizioni, tratte, vettori, hub. Individuare queste entità non significa creare una lista infinita, ma capire quali elementi costituiscono il vocabolario fondamentale del lavoro quotidiano. Sono i mattoni di tutto il resto, le parole che ricorrono nei software gestionali, nelle email interne, nei report, nelle riunioni. È da qui che nasce l’ontologia.
Una volta riconosciute queste entità, il passo successivo è chiarire cosa significano davvero. Sembra banale, ma quasi mai lo è. Ci sono termini che ogni reparto interpreta in modo diverso, e questa divergenza silenziosa è la causa principale degli errori degli agenti AI. Dare una definizione condivisa non vuol dire imporre una descrizione accademica, ma concordare un significato operativo che tutti possano usare senza ambiguità. Quando un agente AI leggerà “ordine cliente”, “richiesta di intervento” o “serbatoio fuori servizio”, potrà finalmente interpretare quei concetti nel modo in cui l’azienda intende davvero.
A quel punto diventa naturale osservare le relazioni tra queste entità. In un’ontologia non conta solo l’esistenza di un concetto, ma il modo in cui si lega agli altri. Un prodotto appartiene a una categoria. Una commessa genera documenti. Un serbatoio possiede una capacità, una classificazione, una posizione, un livello di manutenzione. Rendere esplicite queste relazioni permette all’agente AI di ragionare. È come mostrargli la mappa della città invece di lasciarlo girare a caso: sa dove andare, come muoversi, cosa può dedurre da cosa.
Quando la struttura comincia a prendere forma, arriva il momento più delicato: integrarla nei sistemi esistenti. L’ontologia non deve vivere in un documento isolato, ma deve alimentarsi dei dati reali. Per molte aziende il modo più semplice è creare un “knowledge layer”, uno strato di conoscenza che collega ERP, CRM, gestionali, fogli Excel, documenti sparsi. Non è necessario stravolgere tutto: basta iniziare collegando ciò che è già presente, mappando dove risiedono i dati, stabilendo come vengono aggiornati, e soprattutto definendo come devono essere interpretati. Gli agenti AI, da quel momento, non si limitano a leggere record: leggono significati.
A questo punto è possibile iniziare a coinvolgere effettivamente gli agenti. Il modo corretto di farlo non è lanciare subito progetti enormi, ma lasciare che i primi agenti si muovano dentro un perimetro controllato. Piccoli processi, casi d’uso concreti, attività quotidiane in cui controllare come si comportano, se interpretano correttamente le entità, se usano bene le relazioni. È come insegnare a un collega nuovo non solo a usare gli strumenti, ma a comprendere la logica del lavoro. Grazie all’ontologia, quel nuovo collega digitale non avrà bisogno di riapprendere tutto ogni volta che cambia un processo.
Nel tempo, questo approccio rende possibile un ampliamento graduale ma stabile. Ogni nuovo concetto può essere aggiunto senza far crollare la struttura; ogni nuovo processo può essere collegato senza disorientare gli agenti. L’ontologia diventa un investimento evolutivo, non un documento statico. Man mano che l’azienda cresce, si aggiorna, introduce nuovi prodotti o nuovi reparti, la rete di significati cresce con lei. E gli agenti AI, invece di diventare una fonte di errori o fraintendimenti, diventano strumenti affidabili che lavorano con logica, coerenza e continuità.
È questo, in modo molto pratico, il cuore di un’ontologia aziendale: un modo per far ragionare le macchine con la stessa chiarezza che si pretende dai reparti umani. Non un esercizio teorico, ma il fondamento che permette agli agenti di operare davvero come membri della struttura, senza interpretazioni sbagliate, senza arbitrarietà e senza rischiare di “inventare” significati.
