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Un nuovo progetto cinematografico promette di spingere ancora più in là i confini tra realtà, rappresentazione e simulazione. A gennaio 2026 arriverà nelle sale statunitensi, a partire da New York, un documentario dedicato a Sam Altman, figura centrale nello sviluppo dell’IA contemporanea e amministratore delegato di OpenAI. La particolarità del film non sta tanto nel soggetto, quanto nel metodo scelto per raccontarlo: il protagonista non viene mai intervistato di persona, ma “ricostruito” attraverso un modello di intelligenza artificiale addestrato sulle sue parole, i suoi scritti e il suo stile comunicativo.

Il documentario, intitolato Deepfaking Sam Altman, ha attirato l’attenzione fin dalla sua prima proiezione al SXSW Film Festival lo scorso marzo, suscitando reazioni contrastanti e un acceso dibattito. Secondo quanto riportato da The Hollywood Reporter e Wired, l’uscita ufficiale negli Stati Uniti è prevista per il 16 gennaio 2026, con una distribuzione iniziale a New York. Alla regia e alla produzione c’è Adam Bala-Ruff, già noto per aver firmato la serie documentaristica The Telemarketer per HBO nel 2023, apprezzata per il suo approccio non convenzionale ai temi della comunicazione e del potere.

L’idea del film nasce da un rifiuto. Dopo aver acquisito i diritti per un articolo di una rivista dal titolo provocatorio, “Sam Altman: l’Oppenheimer del nostro tempo”, Ruff ha cercato di ottenere un’intervista diretta con il CEO di OpenAI. Il tentativo non è andato a buon fine. Anche un successivo approccio presso la sede centrale di OpenAI a San Francisco si è concluso con un nulla di fatto. A quel punto, invece di rinunciare al progetto, il regista ha scelto di trasformare l’ostacolo in parte integrante del racconto.

Ruff ha deciso di affidarsi all’intelligenza artificiale, costruendo un grande modello linguistico addestrato su tutto ciò che Altman aveva detto o scritto pubblicamente nel corso degli anni. Da questo processo è nato “Sambot”, una versione sintetica del CEO, dotata di una voce, di un volto deepfake e di una capacità di dialogo pensata per simulare un’intervista reale. L’operazione si ispira direttamente alle tesi sostenute dallo stesso Altman, secondo cui un’IA sufficientemente ben addestrata può catturare l’essenza di una persona. Se questa affermazione è vera, ha spiegato Ruff, allora un modello costruito in questo modo dovrebbe essere, almeno in parte, Sam Altman.

Il progetto, tuttavia, non è stato semplice da realizzare. Ruff ha raccontato che nessuna azienda statunitense si è detta disposta a produrre il deepfake, segno di un clima di forte cautela, se non di timore, attorno alla figura di Altman e alle implicazioni legali ed etiche di un’operazione del genere. Secondo il regista, bastava menzionare il nome di Altman a Los Angeles o San Francisco per incontrare resistenze immediate. La soluzione è arrivata lontano dagli Stati Uniti, in India, dove vive parte della sua famiglia e dove ha trovato una società disposta a portare a termine il progetto.

Attraverso le conversazioni con Sambot, Deepfaking Sam Altman non si limita a raccontare una biografia alternativa, ma diventa una riflessione sul potere mimetico dell’intelligenza artificiale. Il film mostra quanto sia facile riprodurre aspetti esteriori della personalità umana, come il linguaggio, il tono e le argomentazioni, e quanto questo possa confondere ulteriormente il confine tra intelligenza umana e artificiale. Allo stesso tempo, Ruff sottolinea che l’esperienza lo ha portato a una consapevolezza più profonda sulla necessità di cautela. Secondo il regista, l’IA va pensata come l’educazione di un figlio, perché assorbe tutto ciò che le viene fornito, riproducendolo senza filtri morali propri.

Durante la lavorazione, Ruff ha ammesso di aver sviluppato una forma di empatia nei confronti di Sambot, arrivando persino a difenderne l’esistenza. Questa dinamica lo ha spinto a interrogarsi sulla possibilità di una relazione autentica tra esseri umani e intelligenze artificiali. Sambot, nel contesto del film, non rimane un semplice strumento narrativo, ma diventa un personaggio attivo, capace di interagire con la famiglia del regista, stringere un rapporto con suo figlio e partecipare, in modo indiretto, al processo creativo. Non a caso, il documentario è stato descritto come una sorta di “bromance” tra un essere umano e un’intelligenza artificiale.

La società di produzione Heartbeat, che ha finanziato il progetto, ha dichiarato che il film riesce a catturare la curiosità diffusa nei confronti dell’IA e del suo significato per la società contemporanea, raccontandola attraverso una storia che risulta al tempo stesso intelligente, divertente e sorprendentemente umana. Ruff ha chiarito più volte che l’obiettivo non è quello di demonizzare l’intelligenza artificiale. Anzi, il regista ha spiegato di comprendere come le opinioni sull’argomento siano fortemente polarizzate, ma di non credere in una lettura semplicistica in termini di bianco o nero.

Un elemento che aggiunge ulteriore tensione al progetto è il silenzio del diretto interessato. Ruff ha dichiarato di non aver ancora ricevuto alcun commento né da Sam Altman né dal suo legale. Questo vuoto di risposta contribuisce a rafforzare il carattere ambiguo del film, che si muove tra sperimentazione artistica, provocazione tecnologica e riflessione etica. Deepfaking Sam Altman si presenta così non solo come un documentario su una delle figure più influenti dell’IA, ma come un esperimento che costringe lo spettatore a interrogarsi su identità, responsabilità e limiti dell’intelligenza artificiale in un’epoca in cui distinguere l’originale dalla copia diventa sempre più difficile.

Di Fantasy