C’è qualcosa di seducente nell’idea che la tua azienda possa costruire “in casa” un sistema AI: suona come innovazione, come strategia, come un modo per dimostrare visione. Succede spesso: il consiglio d’amministrazione annuisce, il team tecnico si entusiasma, l’investimento viene approvato. Tuttavia la scelta — pur con ottime intenzioni — si rivela molto spesso all’origine dei problemi.
Scavando nei comportamenti, nelle convinzioni, nei vincoli impliciti che spingono verso l’autocostruzione, emerge che molti progetti AI aziendali sbagliano non perché l’idea sia cattiva, ma perché il modo in cui vengono concepiti e gestiti li rende fragili, inefficienti, difficili da scalare.
Quando un’azienda decide “lo facciamo internamente”, dietro quella frase si nascondono diverse spinte:
- Desiderio di controllo: tenere tutto in casa dà l’illusione di poter gestire ogni componente, ogni decisione, ogni adattamento.
- Orgoglio (“visione”): costruire la propria tecnologia viene visto come un segno distintivo, come un segnale esterno di forza, innovazione e indipendenza.
- Presunzione che si risparmi: pensare che si spenda meno, che si abbia piena libertà e che non si debba dipendere da terzi può essere una narrativa convincente.
- Paura dei vendor: timori che esternalizzare significhi perdere traiettoria tecnologica, dipendere troppo da un fornitore, avere meno flessibilità.
Ma queste spinte, se non bilanciate da pragmatismo e consapevolezza, portano spesso a conseguenze poco desiderabili.
I vari ostacoli concreti che rendono molti progetti AI “interni” destinati a rimanere sperimentazioni, a costare troppo, a non centrare obiettivi, o addirittura a essere abbandonati, sono:
- Velocità di realizzazione vs velocità di apprendimento
Anche se il progetto è interno, i tempi di sviluppo, test, validazione, deployment spesso diventano molto lunghi. I problemi si moltiplicano: integrazioni con sistemi legacy, pulizia e qualità dei dati, allenamento di modelli, sicurezza, gestione del cambiamento. Ne risulta che il “valore” che si voleva portare tarderà ad arrivare. - Costi nascosti e crescita di complessità
Non è solo il costo iniziale dello sviluppo a pesare: c’è quello della manutenzione, dell’aggiornamento, del monitoraggio, della gestione del modello nel tempo (drift), dell’infrastruttura (hardware, cloud), delle competenze specializzate (data scientists, ML engineers, DevOps per AI…). In molti casi, i costi superano quelli previsti dall’esterno, perché tutto deve essere costruito, tenuto, adattato. - Scarso focus sul valore di business
A volte ci si concentra troppo su “fare AI”, su costruire qualcosa di tecnologicamente sofisticato, su impressionare con modelli all’avanguardia, e poco su cosa serve davvero all’azienda e ai suoi clienti. Senza una chiara definizione di metriche che collegano l’AI a obiettivi concreti (risparmi, ricavi, efficienza, riduzione dei rischi), i progetti rischiano di avere poca rilevanza operativa. - Mancanza di ecosistema e partnership
Fare tutto da sé spesso significa ignorare che molte aziende specializzate hanno acceleratori, componenti pronti, esperienza concreta, strumenti che possono ridurre la curva d’apprendimento, aumentare la robustezza e ridurre il rischio. Non sfruttare queste risorse porta a reinventare la ruota, commettere errori già noti ad altri, perdere tempo. - Scarsa resilienza operativa
Progetti AI richiedono sorveglianza continua: modelli che driftano, dati che diventano obsoleti, problemi etici/performance che emergono. Un sistema sviluppato internamente può essere “perfetto” in laboratorio, ma quando viene usato a regime spesso emergono gap: nella governance, nella sicurezza, nella scalabilità, nel mantenimento.
Contrariamente a ciò che molti pensano, collaborare, appoggiarsi a vendor, usare componenti esterni o parti già pronte non è un segno di debolezza, ma di saggezza strategica. Ecco cosa si guadagna:
- Salto di competenze e apprendimento accelerato: partner esterni hanno esperienze accumulate; possono evitare errori comuni, proporre soluzioni già validate, aiutare a definire best practice.
- Velocità: usare piattaforme, modelli pre-addestrati, soluzioni modulari permette di schierare qualcosa che funziona in tempi molto più ristretti, quindi iniziare a ottenere valore, raccogliere feedback, iterare.
- Focalizzazione sul core business: se non sei un’azienda che vuole diventare un fornitore di AI, forse il tuo tempo è meglio speso definendo cosa serve al tuo cliente, piuttosto che costruire internamente ogni modulo di supporto (monitoraggio, infrastruttura, sicurezza…).
- Riduzione del rischio: meno investimenti iniziali, meno fallimenti tecnici, meno spreco di risorse. Anche se una partnership o l’uso di risorse esterne costano, il rischio che il progetto “muoia prima dell’arrivo al punto di valore” si riduce.
Basandoci sugli errori osservati e le buone pratiche emergenti, e integrando ciò che l’articolo suggerisce implicitamente, ecco alcune idee pratiche (non uno schema, ma una riflessione su ciò che serve davvero):
- Chiedersi subito: quale valore reale voglio → in caso d’uso concreto → entro quale orizzonte di tempo
Se un progetto AI non ha ancora definito cosa misurerà come successo, è già in pericolo. È importante partire da benefici chiari (riduzione dei costi, miglioramento del servizio, nuova fonte di ricavo, efficienza, riduzione del rischio), non da “voglio usare AI perché è bello”. - Iniziare piccolo, ma con attenzione al contesto
Un proof-of-concept, o pilot, che tocchi un’area concreta, con dati realistici e stakeholders reali, può mostrare subito se le ipotesi reggono. È utile costruire gradualmente, verificare, imparare, adattare. Non c’è niente di male nel partire da qualcosa che non è perfetto, purché serva a capire cosa serve davvero. - Utilizzare componenti esterni, pre-addestrati, partner specializzati
Non tutto deve essere costruito ex novo. Ci sono modelli, piattaforme, servizi, librerie, community che possono ridurre tempi e rischi. Usarli non significa “barare”, ma usare risorse intelligenti. Quando serve qualcosa su misura, costruirla su basi solide. - Costruire competenze interne, ma calibrate
Serve personale con competenze AI, ma anche con consapevolezza: non solo data scientist, ma anche persone che capiscano governance, sicurezza dei dati, etica, manutenzione, monitoraggio. Collaborare con chi ha esperienza esterna può essere utile come mentoring, best practices. - Governance chiara e processi robusti di manutenzione e monitoraggio
Definire come si monitorano i modelli, come si gestisce il drift, come si reagisce se qualcosa va storto, come si aggiornano dati, come si garantisce trasparenza e conformità. Un modello che “funziona oggi” ma che inizia a sbagliare domani può diventare un rischio reputazionale o operativo. - Valutare bene costi totali, non solo sviluppo
Calcolare non solo il costo iniziale di costruzione, ma anche quelli di gestione operativa: hardware/cloud, personale, infrastruttura, supporto, aggiornamenti, errori, bug, fallback, sicurezza. Anche se spendi poco oggi, se il mantenimento è disordinato o caro puoi ritrovarti in difficoltà.
Per rendere concreto il discorso, immagina un’azienda medio-grande che vuole introdurre un sistema AI per il customer service: rispondere automaticamente a domande frequenti, indirizzare richieste, magari anche generare report interni sulle esigenze emergenti dai clienti.
- Potrebbe partire con un modello pre-addestrato per NLP, integrato con il sistema di ticketing già usato.
- Partner esterno o startup specializzata aiuta a fare il setup, la personalizzazione del modello, la pulizia dei dati esistenti, la governance.
- Si definisce un pilot su un canale specifico (email, chat interna, ticket di livello 1), con metriche chiare: tempo medio di risposta, soddisfazione cliente, volume di richieste gestite senza intervento umano.
- Si monitorano gli errori, i casi non gestiti, gli effetti collaterali; si usano questi feedback per adattare modello, dati, processi.
- In parallelo si forma un piccolo team interno per imparare a gestire, manutenere, estendere la soluzione, così che progressivamente l’azienda acquisisca competenza e autonomia, ma senza dover ricominciare da zero.
Alla fine, ciò che l’articolo evidenzia è che il fallimento non dipende tanto dal fatto di costruire internamente o esternamente, ma da come, da con che obiettivi, con quanta consapevolezza e disciplina. L’arroganza del “possiamo farlo meglio di chiunque altro” spesso trasforma l’innovazione in spreco. L’umiltà di riconoscere che alcune fasi conviene prenderle da chi ha già esperienza, che alcuni rischi vanno mitigati con partner, che il valore va misurato presto e bene, è più rara ma diventa il fattore distintivo.