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Il nuovo spot natalizio di Coca-Cola arriva come un sequel consapevole: “Seconda Stagione” di una campagna che l’anno scorso aveva diviso il pubblico e acceso discussioni sul lavoro creativo nell’era dell’intelligenza artificiale. La risposta dell’azienda, quest’anno, non è tanto un dietrofront quanto una rifinitura del linguaggio: via gli umani digitali che sfioravano la “valle perturbante”, dentro una piccola arca di animali — orsi polari, cervi, bradipi — che restituiscono leggerezza al racconto e tolgono alla tecnologia il compito più ingrato, cioè imitare i volti. È una scelta estetica e strategica insieme, che punta a spostare l’attenzione dalla tecnica all’atmosfera e a far sentire il familiare jingle “Holidays Are Coming” in un contesto meno disturbante. Lo scopo dichiarato è semplice: conservare la magia, evitando l’inquietudine. Le testate che hanno visto in anteprima il film lo confermano, raccontando anche una geografia di distribuzione imponente: lo spot corre su YouTube, TV e piattaforme in circa 140 Paesi.

Dietro le quinte, la novità non è solo di stile. Manolo Arroyo, CMO globale, rivendica un’accelerazione senza precedenti: ciò che prima richiedeva un anno ora si chiude in un mese, grazie a pipeline generative più mature, studi dedicati e un processo di iterazione che consente di provare, scartare e rifare con costi marginali inferiori. Il Wall Street Journal ha ricostruito numeri e ruoli: un perimetro produttivo di circa cento persone tra Coca-Cola, agenzia e studio creativo, affiancate da un nucleo ristrettissimo di “specialisti IA” — appena cinque — capaci di generare e rifinire oltre 70.000 clip in lavorazione. L’azienda insiste sul fatto che “il motore resta il narratore umano”, quasi a mettere un cordolo semantico fra l’immaginario dell’automazione e la realtà di un lavoro che, nei reparti di scrittura e direzione creativa, continua a essere profondamente artigianale.

La promessa, però, si muove in equilibrio su un filo sottile. Da un lato l’efficienza: tempi stretti, versioning rapidissimo, possibilità di localizzare e ricombinare al volo le scene per mercati diversi. Dall’altro la percezione del pubblico e della comunità creativa, ancora ferita dal debutto del 2024, quando i volti sintetici e alcuni dettagli “sgraziati” della messa in scena avevano innescato un’ondata di critiche. Quest’anno lo spostamento sugli animali tenta di sottrarre l’IA alla competizione diretta con il realismo umano, ma non tutti leggono l’esperimento allo stesso modo: c’è chi parla di miglioramento tangibile e chi, come alcune testate tech, continua a vedere disomogeneità di stile e animazioni datate rispetto allo stato dell’arte. Nel bene o nel male, l’effetto è quello di una campagna che fa parlare di sé quanto il prodotto che vende.

Il dato forse più interessante, per chi osserva la pubblicità dalla parte dell’industria, è che Coca-Cola non si limita a “usare l’IA”: la integra come una vera infrastruttura di produzione. Gli studi partner — Silverside e Secret Level — compongono un laboratorio capace di costruire centinaia di varianti, sfoltirle, e ricomporle fino a una narrazione coerente. Qui la creatività non è sostituita dall’algoritmo; è riorganizzata attorno a cicli brevi, a una direzione artistica che approva o boccia generazioni su generazioni, e a un assetto in cui il “tempo di esplorazione” viene ricondotto entro scadenze di marketing sempre più pressanti. Il risultato? Un film che resta riconoscibile come Coca-Cola e, insieme, un metodo che altre aziende stanno provando a replicare, dal primo storyboard alla localizzazione finale.

Sul fronte della ricezione, i segnali sono misti ma non ostili. Nel 2024, nonostante il chiasso, i test di System1 avevano premiato lo spot ai focus con i consumatori; quest’anno i primi riscontri confermano che la platea generalista non si scandalizza dell’IA in sé, purché la storia “tenga” e il tono resti caldo e festivo. È una dinamica già fotografata da ricerche indipendenti: il sentimento verso l’IA nella pubblicità resta diviso, ma la diffidenza non è più una diga. E mentre il dibattito etico infiamma le community creative, gli investimenti si muovono: secondo IAB, oggi circa il 30% dei video pubblicitari nasce o viene potenziato con strumenti generativi, e la quota potrebbe salire intorno al 39% nel 2026. È il segnale che la sperimentazione è diventata prassi, soprattutto tra i brand medi e piccoli, attratti dalla possibilità di produrre qualità a costi e tempi prima impensabili.

Resta la questione del lavoro, inevitabile quando si parla di automazione nella creatività. Il racconto ufficiale insiste sul “team invariato” rispetto all’era pre-IA e sulla centralità umana nelle scelte narrative. Le ricostruzioni giornalistiche, però, mostrano anche l’altro lato della medaglia: cinque specialisti capaci di generare decine di migliaia di asset sono un moltiplicatore che, per forza, riposiziona molte professionalità lungo la filiera. È probabile che il punto di equilibrio, per i prossimi anni, si giochi su una diversa divisione dei compiti: meno manodopera su riprese e compositing di routine, più lavoro su direzione, concept, character design, supervisione di coerenza e qualità. In questo senso, la “Seconda Stagione” di Coca-Cola non è solo un episodio commerciale: è un case study di transizione, con le sue promesse e i suoi attriti.

C’è poi un fattore culturale che, a Natale, pesa doppio: l’aspettativa. “Holidays Are Coming” è un rito, e i riti chiedono fedeltà a un canone. L’IA, in questo contesto, è tollerata quando scompare nell’effetto complessivo, quando non si mette al centro della scena a reclamare attenzione su di sé. Ecco perché l’idea di far parlare gli animali funziona meglio dei sorrisi sintetici: alleggerisce la promessa senza sfidare il nostro radar di autenticità. Se il film di quest’anno riuscirà a rientrare nel perimetro del “familiare”, lo capiremo dal grado di discussioni che spegnerà, non da quelle che accenderà.

Sul piano più ampio del mercato, il caso Coca-Cola fotografa un punto d’arrivo e, insieme, una partenza. L’arrivo è la normalizzazione dell’IA nella filiera creativa: supply chain di asset, motori di generazione e refining, valutazioni pre-test con panel, localizzazioni rapide. La partenza è l’alfabetizzazione del pubblico a una nuova estetica, fatta di texture a volte perfette e a volte ancora “in pasta”, di dettagli minimi che rivelano la mano della macchina, di imperfezioni che possono persino diventare stile. In mezzo, il lavoro dei brand: spingere sull’innovazione senza perdere la fiducia, dichiarare quando c’è IA e quando non c’è, e soprattutto difendere la continuità di un tono che le persone riconoscono come proprio. È qui che, più dei render e dei prompt, si gioca il significato di “umanità” in pubblicità.

La “Seconda Stagione” dell’IA di Coca-Cola non chiude il dibattito: lo mette in forma, lo rende misurabile su tre assi — qualità percepita, tempo di produzione, impatto sul lavoro — e ci ricorda che la tecnologia funziona quando si vede meno di quanto lavora. Se, tra un orso polare e una slitta, dovessimo dimenticarci di chiederci “com’è stato fatto”, allora vorrà dire che per una volta l’IA ha fatto davvero il suo mestiere: restituire tempo al racconto.

Di Fantasy