Pensa di essere su un aereo che attraversa l’Atlantico, a decine di migliaia di piedi dal suolo, con una dimostrazione di prodotto cruciale da preparare per un cliente importante, e mancano meno di 48 ore. Potresti pensare: “Ok, sarà dura tirarlo su tutto da zero in così poco tempo”. E invece, nel caso di Mark Ruddock, imprenditore in residence presso GALLOS Technologies, è accaduto qualcosa di quasi cinematografico: durante il volo, grazie a un gruppo di agenti AI (il cosiddetto Claude Code swarm), è stato possibile costruire in poche ore più di cinquanta componenti React, impostare un set di API per tre integrazioni aziendali, preparare un’interfaccia di amministrazione completa, testata, documentata, dotata di configurazioni Docker pronte per la produzione, con pipeline CI/CD già operative. Quel che normalmente avrebbe richiesto diciotto “giorni-uomo” è stato compresso in un tempo che per umani normali sulle rotte transatlantiche sembrerebbe impossibile. Ma non lo era, perché la tecnologia è cambiata.
Questa storia non è un’eccezione, secondo l’articolo di VentureBeat, ma un segnale: la barriera per creare software robusto, aziendale, con test, sicurezza e deployment, si sta rapidamente abbassando grazie a una nuova generazione di sistemi AI che non si limitano a rispondere a prompt (come nel “vibe coding”) ma operano in swarm agentici. E per “swarm” non si intende una figura poetica, bensì un’architettura concreta: più agenti, specializzati, che cooperano, si dividono compiti, verificano il lavoro l’uno dell’altro, correggono, iterano, il tutto sotto la guida di esseri umani che definiscono obiettivi, supervisione, criteri di qualità.
Il termine “vibe coding”, coniato da Andréj Karpathy, evocava un codice generato via prompt, spesso esplorativo, creativo, un po’ improvvisato: chiedi all’AI “fammi questo componente”, “fammi questo algoritmo”, e con un lavoro iterativo lo sistemi. Era utile, era potente, ma aveva limiti chiari: la qualità era spesso variabile, non c’era garanzia che tutto fosse integrato, testato, sicuro, pronto per la produzione.
Quello che sta emergendo ora è diverso. Gli strumenti su cui fa leva il “swarm coding agentico” implicano modelli di base molto più potenti, architetture di agenti che dialogano tra loro, controllo esplicito sulla qualità del codice, integrazione diretta con gli strumenti reali di sviluppo (tests, versionamento, autenticazione, sicurezza). Ed è proprio questa convergenza che ha fatto sì che ciò che prima era possibile solo in ideazione, prototipo o demo, adesso sia nelle mani delle aziende, già nel flusso di produzione.
In particolare, tre grandi elementi hanno contribuito a questa avanzata:
- I modelli “foundation” (GPT-5 di OpenAI, Claude 4, Grok 4 di xAI…) hanno fatto salti significativi in compiti di ingegneria del software — nel diagnosticare bug reali, risolvere issue su GitHub, capire contesti complessi, pianificare, depurare.
- Le architetture agentiche sono maturate: non c’è più un singolo agente che prova a fare tutto, ma una rete di agenti con ruoli specializzati — uno che pianifica, altri che scrivono il codice, altri che fanno la revisione critica; il coordinamento tra questi agenti è diventato più fluido.
- L’integrazione reale degli strumenti di sviluppo: non è solo generare codice, ma usare sistemi di test, pipeline CI/CD, controlli di sicurezza, versionamento, framework realistici. Tutto questo rende il prodotto finale più affidabile, meno “mostro che va sistemato”, e più “applicazione che si può consegnare”.
Durante il volo transatlantico, Ruddock ha fatto esattamente questo tipo di lavoro: ha usato agenti per costruire una struttura completa, produrre componenti UI, integrare API, predisporre setup per container, tutto pronto per essere messo in produzione. Non solo un prototipo, non solo qualcosa di “dimostrativo”: con documentazione, test, sicurezza integrata.
Un altro punto cruciale è come questi sistemi superino le aspettative sugli errori e le imperfezioni. Prima, generare codice tramite AI comportava investire molto tempo nel correggere: bug, incoerenze, struttura non adatta al sistema dell’azienda, stili diversi, problemi di sicurezza non considerati. Adesso, grazie agli agenti specializzati (ad esempio agenti che fungono da “critico”, da revisore di sicurezza, da tester), molto di quel lavoro può essere in parte automatizzato o meglio strutturato, alleggerendo la fatica umana.
Non tutto splende. Ci sono giorni in cui gli agenti sembrano fantastici, e altri in cui il risultato è deludente. La coerenza—tra ciò che si chiede e ciò che si ottiene, tra qualità prevista e qualità reale—non è ancora perfetta. Talvolta serve generare in parallelo più versioni dello stesso modulo, confrontarle, selezionare manualmente; l’automazione dà una spinta enorme, ma non elimina il bisogno di supervisione, revisione, test rigorosi.
C’è anche un costo cognitivo: coordinare questi agenti, dare loro criteri chiari, verificare output, assumere ruoli di validazione, definire requisiti in modo preciso, richiede disciplina, sforzo mentale, abilità umane nuove. Non basta “dire cosa vuoi”: serve saper progettare il processo, saper riconoscere quando intervenire, saper stabilire standard. L’ingegnere che lavora con swarm agentici non è solo chi digita codice, ma diventa regista, direttore d’orchestra, controllore di qualità.
Inoltre, per applicazioni davvero critiche — sicurezza, afferenza a normative severe, applicazioni mission-critical — serve evidenziare che il sistema generato sia audio, affidabile, sicuro, conforme: non sempre gli agenti riescono a gestire ogni variabile. La fiducia è un elemento che richiede prove — audit, validazioni, test, rollback, gestione degli errori.
L’estate 2025 sarà ricordata come il momento in cui è scattata un’accelerazione decisiva: non più solo “possiamo farlo?”, ma “lo stiamo facendo, davvero”. Le imprese che sapranno usare questi strumenti più velocemente, che definiranno processi per orchestrare agenti, che formeranno figure interne capaci di fare da ponte tra AI e disciplina di sviluppo, saranno quelle che guadagneranno un vantaggio competitivo significativo.
Il “moat” (il fossato competitivo) non è più semplicemente avere buon software, ma avere la capacità di costruirlo velocemente, con qualità, sicurezza, e una prospettiva unica. Idee e domini di settore diventano più preziosi, perché con swarm agentici puoi replicare più facilmente ciò che già è stato fatto, ma non puoi replicare facilmente il dominio di conoscenza, l’esperienza, il contesto aziendale. Avere un’esperienza maturata, una conoscenza del problema che solo tu possiedi, insieme alla capacità di sfruttare queste nuove architetture, è la chiave per restare davanti.