Il mondo dell’alta moda, da sempre un bastione di artigianato sartoriale, espressione artistica e celebrazione dell’estetica umana, è stato scosso da una polemica che ha messo al centro il controverso utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa nelle campagne pubblicitarie. A finire sotto i riflettori, e a generare un’ondata di indignazione e dibattito internazionale, è stata Valentino, una delle maison più prestigiose, che per promuovere una delle sue recenti iniziative ha scelto di affidarsi a un’immagine di sintesi, con risultati che il web ha rapidamente bollato come “inquietanti” e “surreali”.

La campagna in questione presentava una modella dall’aspetto iperrealistico, ma che a un esame più attento mostrava i tipici e disturbanti difetti di rendering dell’AI, i cosiddetti glitch. Quelle imperfezioni sottili – una mano dai contorni innaturali, un’espressione facciale congelata in una mimesi quasi distorta, o una luce che non si conformava alle leggi della fisica – sono bastate a svelare la natura artificiale del soggetto. È stata questa sensazione di dissonanza cognitiva, di un’immagine che simula la vita senza possederne l’anima, a innescare il caso. La modella, sebbene generata per incarnare un ideale estetico, è risultata fredda e artificialmente perturbante, un effetto involontario che ha polarizzato l’attenzione del pubblico.

Il dibattito che ne è scaturito è andato ben oltre la semplice critica estetica. La controversia ha toccato il cuore dei valori su cui si fonda il lusso: autenticità, savoir-faire e la celebrazione del talento umano. Valentino, un brand la cui essenza è legata al lavoro manuale degli artigiani e alla selezione di talenti reali (fotografi, stylist, modelli), è stata accusata di tradire la propria eredità, scegliendo la via della creazione low-cost e disumanizzata offerta dall’AI. L’insorgere del web e l’intervento di media autorevoli come la BBC, che ha acceso i riflettori sulla vicenda, hanno sottolineato come l’utilizzo dell’AI per sostituire figure professionali non sia solo una questione economica, ma un attacco all’integrità artistica e alla narrazione emotiva che il fashion si prefigge di veicolare.

Ciò che ha reso il caso Valentino un punto di svolta è stata l’evidenza che, nonostante i progressi rapidissimi, l’AI generativa fatica ancora a cogliere le sottili sfumature dell’emozione e della presenza umana, elementi essenziali per creare un legame con il consumatore di lusso. La fredda perfezione algoritmica, quando presenta i suoi glitch, produce non un senso di meraviglia, ma di estraniamento. L’incidente ha quindi messo in luce il limite attuale della tecnologia nel campo delle arti visive ad alto budget: mentre l’AI può essere uno strumento utile per la bozza o per l’accelerazione dei processi, non può, almeno per il momento, sostituire il tocco umano e la sua intrinseca autenticità, senza rischiare di danneggiare irreparabilmente l’immagine e la percezione di qualità che un brand come Valentino ha impiegato decenni a costruire. La rimozione implicita o l’attenuazione del focus su quella pubblicità da parte del marchio suggerisce che la lezione è stata imparata: nel regno dell’estetica premium, l’anima conta ancora più dell’efficienza.

Di Fantasy