C’è un passaggio, nelle cronache economiche di questi giorni, che spiega bene lo spaesamento del mercato del lavoro americano: a ottobre sono stati annunciati 172 mila tagli di posti, di cui 128 mila concentrati nell’universo delle tecnologie digitali. La fotografia non arriva dai decenni di delocalizzazioni né dalle fabbriche dei tempi del vapore, ma dal cuore della nuova economia. E riguarda soprattutto gli uffici, gli staff amministrativi e professionali, i comparti dove, fino a ieri, la sicurezza del “lavoro intellettuale” sembrava assodata. È il quadro ricostruito dal Corriere della Sera, che associa l’ondata di licenziamenti all’irruzione dell’intelligenza artificiale nei processi aziendali. Non una parentesi, ma il segnale di una riconfigurazione profonda, più rapida di quelle che nella storia abbiamo imparato a riassorbire con il ricambio generazionale e con la formazione.
Il dato che colpisce non è solo la dimensione dei tagli, ma la loro geografia. I casi più visibili non si concentrano nelle linee produttive bensì nelle sedi centrali di grandi gruppi, dall’e-commerce alla logistica, dalla GDO all’automotive. Nelle cronache si citano riorganizzazioni negli uffici di Amazon, UPS e Target; mentre banche come Citigroup e JP Morgan, colossi digitali come Meta e Salesforce e big del commercio e dell’auto come Walmart e General Motors fanno sapere che ridurranno organici o congeleranno le assunzioni. La motivazione, esplicita o implicita, è sempre la stessa: parte delle attività può essere già oggi coperta da sistemi di AI, dunque serve meno manodopera intermedia. È il passaggio in cui l’automazione smette di essere sinonimo di bracci meccanici e diventa software capace di leggere, scrivere, riassumere, classificare, raccomandare.
La domanda che s’insinua, a questo punto, è doppia: stiamo davvero entrando nell’“apocalisse” dei colletti bianchi o si tratta di una fisiologia della transizione, destinata a essere assorbita dalla creazione di nuovi mestieri? Il dibattito non è nuovo, ma la velocità del cambiamento sì. L’articolo del Corriere richiama il confronto con le grandi svolte del passato — dal passaggio dall’agricoltura all’industria, all’elettrificazione — ricordando come a lungo periodo la quantità complessiva di occupazione sia cresciuta. Oggi, però, l’AI non sostituisce soltanto il lavoro muscolare: entra nella sfera cognitiva, nell’area del linguaggio che costituisce la nostra cifra evolutiva. È qui che lo strappo si fa più netto, perché le macchine imitano procedure prima considerate tipicamente umane e, in alcuni compiti ripetitivi o di analisi, le accelerano fino a renderle compatibili con cicli produttivi che non attendono i tempi della riqualificazione.
Non stupisce, allora, che voci autorevoli dell’accademia e dell’industria leggano l’orizzonte con toni diversi ma convergenti nell’avvertimento. Stuart Russell, tra i pionieri dell’intelligenza artificiale, aveva già osservato come certi modelli econometrici che prefiguravano una crescita della domanda di lavoro nell’era dell’AI, a un certo punto, si siano dovuti arrendere all’evidenza: quella “domanda” in più era soddisfatta dalle macchine, non dalle persone. Dall’altro lato, Dario Amodei, alla guida di Anthropic, vede nella maturazione dei modelli linguistici un potenziale di sostituzione significativo proprio nei ruoli professionali intermedi: traduzione, programmazione, attività legali standardizzate, contabilità, diagnostica di primo livello, giornalismo di servizio. È l’area grigia in cui non si inventano nuovi prodotti, ma si elaborano informazioni, dossier, resoconti: esattamente il terreno su cui l’AI brilla.
A rendere questo passaggio più incendiare del previsto, però, è la mancanza di una narrazione credibile sui “nuovi lavori” in arrivo. Molti leader tecnologici, nota il Corriere, condividono l’analisi di un rimpiazzo sostanziale sul medio periodo, ma preferiscono non tematizzarla pubblicamente. Una cautela tattica, per evitare reazioni politiche e regolatorie che frenino l’innovazione, ma anche il riflesso di un’incertezza genuina: se e quando emergeranno nuove professioni a sufficienza, oggi non è ancora dato dirlo con precisione. Nel frattempo, i dipartimenti HR ripensano le piante organiche, i manager sperimentano copilot e agenti, i responsabili finanziari vedono nei tagli una leva immediata per margini e utili. La somma di queste scelte micro produce, a livello macro, i segnali che leggiamo nelle statistiche di ottobre.
Il paragone con la rivoluzione industriale, d’altra parte, regge solo fino a un certo punto. Lì la spinta fu lenta, scandita dall’adozione progressiva di nuovi macchinari e dalla necessità di infrastrutture fisiche. Qui la curva è più ripida: l’AI è software, si distribuisce in cloud, si integra con API nelle workflow esistenti, contagia reparti interi in settimane e non in anni. Il rischio non è soltanto la sostituzione in sé, ma l’asincronia tra il tempo dell’innovazione e quello delle persone, delle scuole, dei sistemi di protezione sociale. È questa asimmetria a far dire che, per molti versi, l’impatto attuale è “peggio” della rivoluzione industriale: non perché distrugga di più, ma perché lo fa più in fretta, proprio dove ci sentivamo al riparo.
Nelle pieghe di questa transizione ci sono almeno tre nodi da sciogliere. Il primo riguarda la direzione delle competenze: la “riqualificazione” non può limitarsi a spostare persone dalle mansioni rimpiazzate a quelle adiacenti, perché anche i ruoli adiacenti stanno cambiando. Serve alfabetizzazione ai modelli, capacità di progettare processi che prevedano la collaborazione uomo-macchina, sensibilità etiche e legali integrate nel quotidiano. Il secondo nodo è organizzativo: se i grandi gruppi centralizzano la produttività in pochi hub di AI e riducono la manodopera diffusa, si rischia un mercato polarizzato tra pochi “orchestratori” e molti “esecutori” precarizzati. Il terzo è politico: la spinta a proteggere potrebbe tradursi in freni generalizzati, ma la sfida è diversa e più fine — governare tempi e modalità dell’adozione, incentivando innovazione che crea sbocchi occupazionali e disincentivando l’estrazione di rendite via sostituzione pura.
C’è, infine, un tema di percezione collettiva. Per anni l’AI è stata raccontata come strumento di potenziamento, non di rimpiazzo. In parte lo è, e lo sarà sempre di più man mano che gli strumenti maturano e che impariamo a disegnare ruoli in cui l’umano rimane “nel ciclo” con responsabilità chiare. Ma l’economia non si muove sulle intenzioni: se in una fase di transizione l’adozione consente di tagliare costi senza colpire ricavi, la tentazione di farlo è forte. È per questo che l’urgenza oggi non è decidere se l’AI sia buona o cattiva per il lavoro, ma come distribuire nel tempo e nello spazio gli effetti di breve e di lungo periodo, per evitare shock che si pagano in disuguaglianze e risentimento.
L’editoriale che ha acceso il confronto porta la data del 5 novembre 2025. In pochi giorni è diventato un riferimento per capire una dinamica che, numeri alla mano, non è più un esercizio teorico. Lo stesso pezzo richiama previsioni “eretiche” di otto anni fa, quando Kai-Fu Lee invitava a prendere sul serio due idee: che la Cina avrebbe potuto superare gli Stati Uniti nella corsa all’AI e che l’AI avrebbe imposto di ripensare il concetto stesso di lavoro. Oggi, con il senno di poi, quelle provocazioni suonano meno peregrine, e soprattutto meno rinviabili. Il centro del problema non è arrestare il progresso, ma renderlo compatibile con biografie, comunità, filiere. Perché l’onda d’urto, se governata, può diventare energia; se ignorata, resta uno schianto.
