Immagine AI

C’è stato un tempo in cui i robot vivevano soprattutto nelle demo scintillanti: mani che afferravano bicchieri, sorrisi di silicone, promesse di domani. Poi è arrivato il 2025 e, silenziosamente, la scena si è spostata dal palcoscenico al pavimento delle fabbriche. A ricordarcelo è una ricognizione puntuale: il baricentro dell’automazione è tornato ai robot “che lavorano”, macchine robuste, connesse e addestrabili, che cambiano davvero la metrica di una linea produttiva. Non è un cambio estetico, è un cambio metabolico: cobot che sollevano di più, controlli di movimento più fluidi, modelli di AI che insegnano un compito in minuti invece che in settimane, investimenti industriali che parlano la lingua della scala e non più del prototipo. È un passaggio di testimone misurabile anche sul calendario: il pezzo che racconta questa curva è datato 7 novembre 2025, ma tutto quello che elenca ha già il profilo del “qui e ora” e non della promessa lontana.

La fotografia più eloquente è quella delle scelte strategiche. Negli Stati Uniti, Apptronik — nota per il suo umanoide Apollo — ha creato Elevate Robotics per spingersi oltre il glamour del bipedismo e attaccare la fascia dura dell’automazione industriale con soluzioni non umanoidi, figlie di dieci anni di ricerca ma pensate per il ciclo continuo e i carichi pesanti. La struttura è autonoma, con un management dedicato guidato da Paul Hvass, e un mandato chiaro: portare nelle officine robot che non “fingono” l’umano, ma moltiplicano il lavoro umano. È un segnale di maturità: la forma non è più il messaggio, la produttività sì.

Il consolidamento corre in parallelo con la finanza. Il colpo di teatro arriva dal Giappone: SoftBank di Masayoshi Son acquisisce la divisione Robotics di ABB per 5,375 miliardi di dollari, mettendo mano a un portafoglio tra i più estesi al mondo in bracci industriali e sistemi di automazione, con 7.000 addetti e 2,3 miliardi di ricavi nel comparto. Un’operazione che, se supererà i passaggi regolatori, ridisegnerà il campo tra fornitori storici e nuovi integratori “AI-first”, con un orizzonte di chiusura tra la metà e la fine del 2026 e la staffetta di leadership già calendarizzata. È la prova che il capitale scommette non sull’effetto wow, ma sulla catena del valore che tiene insieme hardware, software e servizi.

Intanto, dove le merci si muovono ogni giorno, il contatore corre. Amazon ha annunciato l’unità robotica numero un milione dispiegata nella sua rete globale, una flotta che ormai tocca trecento siti e, a detta dell’azienda, entra nel settantacinque per cento delle consegne, tra sorter, mobili autonomi, bracci intelligenti e — in certi hub — persino umanoidi da corsia. È una cifra che non racconta un’ossessione per la sostituzione, ma un metodo: aumentare sicurezza, ridurre infortuni, ridisegnare l’interazione uomo-macchina nei gesti ripetitivi. L’automazione come infrastruttura, non come curiosità.

Sui tavoli di progetto, il segno più visibile è quello dei cobot di nuova generazione. Universal Robots ha allargato la sua famiglia con l’UR18: 18 chilogrammi di payload, 950 millimetri di reach, fino a 4 metri al secondo, quaranta chili scarsi di peso complessivo. Il punto non è la scheda tecnica, è l’uso: montaggio su portali esistenti, innesti rapidi, nuovi algoritmi di traiettoria (OptiMove e MotionPlus) che rendono più naturale il pick-and-place veloce e l’handling in logistica, automotive, food & beverage. La potenza, insomma, non è più sinonimo di cellule blindate, ma di agilità controllata in spazi vivi.

Nel frattempo, l’AI smette di restare in laboratorio e scende in reparto. La cinese AgiBot ha portato il suo reinforcement learning “di fabbrica” su una linea reale con Longcheer Technology: invece di settimane di messa a punto, dieci minuti per apprendere e adattarsi a un nuovo compito. Per chi gestisce volumi variabili e SKU capricciosi, è uno spartiacque. La flessibilità smette di essere una promessa dei depliant e diventa un parametro d’impianto: riattrezzare in un turno, provare e validare in digitale, spingere in produzione senza riscrivere un poema di PLC.

A orchestrare questo salto, il gemello digitale viene promosso da bella visualizzazione a sala di controllo. NVIDIA ha esteso Blueprint in Omniverse per simulare flotte intere e fabbriche specchio: decine o centinaia di robot provati in silico, ottimizzati, schedulati e poi riversati sul campo con meno sorprese. È una transizione culturale prima che tecnica: si sposta la creatività dal “come lo faccio andare” al “come lo faccio convivere con gli altri cento”, con una disciplina di test che somiglia sempre più a quella dell’aviazione e sempre meno a quella dell’improvvisazione da reparto.

La mappa geografica dell’innovazione si allarga e l’India smette di stare ai margini del racconto. A Bengaluru, CynLr annuncia robot pronti per la fabbrica tra la fine del 2025 e l’inizio del 2026, con l’idea fissa della ri-programmabilità rapida; Addverb, sostenuta da Reliance, mette in cantiere un umanoide dual-arm per l’assemblaggio industriale sullo stesso orizzonte temporale. A Chennai, la svedese RSP apre la prima unità produttiva estera per accessori di ecosistema — tool changer, giunti, gestione cablaggi — segno che non si delocalizza solo la macchina, ma anche la componentistica fine che permette alla macchina di durare. E lungo la stessa direttrice arrivano capitali: ANSCER Robotics raccoglie seed per espandere la gamma di AMR, mentre Delta Electronics annuncia 500 milioni di dollari d’investimenti in India e il lancio della serie di cobot D-Bot. Chi guarda al medio termine vede un hub regionale che non è più solo “mercato”, ma piattaforma di sviluppo e produzione.

Anche in Europa il confine tra ricerca e applicazione si assottiglia in luoghi ad alta complessità. In Francia, Capgemini e Orano hanno messo in servizio HOXO, un umanoide “tecnico” nella facility nucleare di Melox: percezione in tempo reale, navigazione autonoma, replicazione di gesti umani per assistere gli operatori in compiti a rischio. Qui la lezione è doppia: l’umanoide non è solo un corpo scenico, è un’interfaccia che porta senso quando l’ambiente è ostile e l’accesso umano deve essere limitato. È una nicchia, ma è una nicchia che esiste davvero, con vincoli severi e metriche chiare.

Il mondo della logistica, invece, sperimenta ibridi più muscolari. Dexterity AI ha svelato “Mech”, definito un super-umanoide per l’industria: solleva intorno ai 58 chilogrammi, impila fino a otto piedi, naviga da solo, e soprattutto scala con un solo operatore che controlla più unità. È la traduzione operativa di un’idea ricorrente: non serve un robot che “sembri” umano, serve un sistema che stia in KPI di produttività, sicurezza e TCO. Se un bipedismo serve a entrare ovunque senza rifare il layout, bene; altrimenti vince il design che fa più lavoro per euro e per kilowattora.

Sul fondo di questo scenario, gli assegni pesano. Apptronik ha chiuso un round da 350 milioni per scalare la produzione dei suoi umanoidi da magazzino e manifattura, un gesto che sposta il racconto dall’R&D alla supply chain. Se a questo si sommano i programmi di investimento di operatori come Delta e le campagne di seed su mobile robotics, il risultato è una filiera che non aspetta più “l’anno dei robot”: lo sta già amministrando, con piani d’acquisto, localizzazioni produttive e accordi industriali incrociati, come quello tra LG CNS e Skild AI per innestare modelli fondativi su piattaforme di smart factory e logistica, in vista di una generazione di umanoidi e sistemi AI-nativi per montaggio, monitoraggio e sostituzione in attività pericolose.

Il filo che tiene insieme tutto questo non è l’effetto speciale, ma la frizione con la realtà. Si vedono robot che imparano in dieci minuti perché la produzione non aspetta il corso di aggiornamento; cobot da 18 chili perché una mano in più vale se sta nei percorsi e nei tempi del reparto; gemelli digitali a scala di flotta perché l’errore marginale moltiplicato per cento diventa fermo impianto. Si vedono anche scelte organizzative nuove: sussidiarie “industrial-first”, acquisizioni che verticalizzano portafogli, supply chain che localizzano componenti critici per ridurre tempi e rischi. E soprattutto si vede una tregua, salutare, tra la forma uomo e la sostanza lavoro: quando serve l’umanoide entra, quando non serve vincono bracci, AMR e cobot che si avvitano alla fabbrica esistente.

Se c’è una morale per chi progetta, integra, investe, è che il 2025 ha ricomposto un equivoco: l’automazione non è un genere spettacolare, è una pratica. E la pratica, quest’anno, ha portato in dote undici esempi concreti che meritano il nome di “trend” solo perché stanno già accadendo. Il resto lo farà la scala, con le sue armi semplici: tempi più brevi tra ordine e messa in servizio, software che riducono la distanza tra simulazione e campo, capitali che preferiscono la ripetibilità alla fama virale. È lì, nella prosa dei cicli produttivi, che i robot che funzionano davvero hanno trovato casa.

Di Fantasy