L’intelligenza artificiale è celebrata come la svolta tecnologica per eccellenza, un’onda epocale che promette rivoluzioni in ogni ambito. Eppure, dietro i riflettori di conferenze e pitch entusiasmanti, si nasconde una realtà meno elegante, ma forse ancora più significativa: molte startup che si definiscono “AI‑first” non stanno reinventando il futuro, ma semplicemente arrotondando il tutto costruendo “sottilissimi gusci” sopra API esposte da giganti come OpenAI, Anthropic o Google. È una verità che fa riflettere: quanta indipendenza possono davvero vantare?
Alex Issakova, CEO di Huckr AI, esprime questa vulnerabilità con brutalità: «L’80 % delle startup AI dipende da API gestite da aziende che stanno spendendo miliardi. Fino a quando potrà durare?». Questo dato non è solo un numero: è un sintomo di un ecosistema in bilico, dove la parola “startup” suona tanto di novità quanto di precarietà.
Quando i fornitori di API alzano i prezzi, riducono i crediti o modificano i livelli d’accesso, l’effetto domino può essere devastante. Ogni cambiamento – anche piccolo – può scuotere le fondamenta dei business più fragili. Gergely Orosz, noto per la newsletter The Pragmatic Engineer, sottolinea un altro aspetto inquietante: molte di queste realtà condividono traguardi di fatturato annuale ricorrente (ARR) che, alla prova dei fatti, “non tornano”. C’è qualcosa di ammantato dall’illusione dell’innovazione, ma ben più labile di quanto sembri.
In sostanza, queste startup sono essenzialmente integratori di API: presentano un’interfaccia elegante o un flusso operativo specifico, ma la vera intelligenza resta nelle mani di altri. E questa dipendenza è una lama a doppio taglio: offre rapidità di sviluppo e pochi costi infrastrutturali, ma lega in modo quasi permanente il destino dell’azienda a una strategia, a una decisione o a un cambio tariffario da una multinazionale. La speranza di scalare diventa un sogno fragile, sospeso su canali di comunicazione terzi.
A questa vulnerabilità si aggiunge un contesto di mercato altrettanto insidioso. Le startup AI stanno bruciando capitali a ritmi impressionanti: basti pensare che i modelli di IA più avanzati richiedono investimenti così elevati che si prevede il costo di addestramento supererà il miliardo di dollari entro il 2027. Inoltre, secondo Reuters, il boom dell’AI è più un boom dell’infrastruttura che del software: generare risposte AI costa energia, calcolo e tempo—e tutto ciò pesa sul bilancio.
È un contesto in cui i modelli di business tradizionali faticano a stare in equilibrio: spendi milioni per mantenere l’accesso a potenza computazionale, ma se dipendi da terzi per offrirla, il margine si assottiglia pericolosamente.
Il tutto alimenta l’idea che molte startup finiranno per affondare, lasciando che i giganti del settore – OpenAI, Anthropic e via dicendo – assorbano valorosamente le innovazioni emergenti tramite acquisizioni o accordi “soft”. Deal in cui il team viene acquisito, mentre la tecnologia rimane sotto una diversa etichetta: un espediente per inglobare talento e idee senza passare per una fusione tradizionale.
La svolta potrà venire solo da un cambiamento di paradigma: piuttosto che costruire servizi connessi passivamente all’infrastruttura altrui, le startup devono investire in modelli propri, in differenziazione reale e in controllo della propria catena del valore.
Serve capacità tecnica, visione e, sì, capitali. Ma soprattutto, serve la volontà di andare oltre l’API wrapper, di investire in un’intelligenza che sia davvero indipendente — e a prova di pricing change.