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Wood Mackenzie, una società di ricerca nel settore energetico, ha recentemente rivelato un risultato davvero sorprendente: i giacimenti petroliferi già in produzione, se opportunamente gestiti con strumenti moderni, contengono molto più petrolio recuperabile di quanto si pensasse. Non si parla di nuove scoperte o di tecnologie fantascientifiche, ma del potenziale che è già lì, sotto terra, in giacimenti che l’industria già sfrutta. E questo potenziale potrebbe essere davvero enorme.

Il punto centrale dell’analisi è che i giacimenti attivi — già conosciuti, già perforati, già produttivi — non sono ancora sfruttati al massimo delle possibilità. Con le pratiche migliori già oggi disponibili, si potrebbero estrarre quantità molto maggiori rispetto a quanto in uso attualmente. Wood Mackenzie, tramite il suo modello AI-powered chiamato Synoptic, ha analizzato decine di migliaia di giacimenti — oltre 30.000 — su un gran numero di parametri: caratteristiche fisiche delle rocce, qualità del fluido petrolifero, condizioni operative, condizioni commerciali (costi, normative fiscali), profondità, spessore, proprietà del campo, ecc.

Usando queste informazioni, l’analisi ha confrontato ogni giacimento con altri “analoghi” — cioè altri campi con condizioni simili — per capire quanto potrebbe essere migliorato il fattore di recupero. Il “fattore di recupero” è la percentuale del petrolio presente nel giacimento che viene effettivamente estratto. Analisi precedenti avevano stimato che la media mondiale dei campi convenzionali in funzione è intorno al 29% di recupero.

Secondo le stime più conservative, se ogni giacimento raggiungesse solo il “top quartile” di prestazioni rispetto ai suoi analoghi, sarebbe possibile aggiungere circa 470 miliardi di barili recuperabili. Se invece si arrivasse a un livello “best-in-class”, ossia quello dei giacimenti che oggi operano con le migliori tecniche, la cifra potrebbe superare 1.000 miliardi di barili.

È una quantità che non è solo impressionante per dimensione: è rilevante perché, secondo le proiezioni sul fabbisogno energetico globale fino al 2050, questo extra potrebbe colmare (e anche superare) il gap che si crea se l’industria non cambia modo di operare. Senza miglioramenti nei giacimenti attivi, infatti, c’è rischio che la produzione futura non basti a soddisfare la domanda prevista, anche assumendo che non crescano le nuove scoperte petrolifere.

Non tutta questa opportunità è distribuita uniformemente. La ricerca mostra che la maggior parte del petrolio “addizionale” è concentrata in giacimenti onshore (a terra) e poco in alto mare (“shallow offshore”). I campi in alta profondità, già svantaggiati per costi operativi e tecnologie complesse, mostrano meno margine di miglioramento.

Un dato interessante è che le compagnie nazionali (National Oil Companies, NOC), ossia quelle controllate dallo Stato, detengono quasi il 70% del potenziale di recupero aggiuntivo globale, se riuscissero a portare i loro giacimenti ai livelli migliori. Alcune nazioni come Iran, Venezuela, Iraq e Russia emergono come quelle con il margine più grande, perché molti dei loro campi non operano al massimo delle tecnologie applicabili. Al contrario, le grandi compagnie internazionali (Major Oil Companies) già operano spesso vicino a livelli elevati e dunque hanno meno “spazio” per guadagni enormi, benché ci siano comunque opportunità anche per loro.

Importante sottolineare che il potenziale non dipende da invenzioni futuristiche. Wood Mackenzie afferma che le tecniche necessarie per aumentare il recupero sono in gran parte quelle già note: pratiche operative migliori, investimenti nei sistemi di recupero secondario e terziario, migliore iniezione di fluidi (acqua, gas), gestione ottimizzata dei reservoir, monitoraggio più accurato, uso di dati per guidare decisioni. Non serve inventare qualcosa di nuovo, ma usare meglio ciò che è già disponibile.

Detto questo, ci sono ostacoli. Alcuni giacimenti sono in regioni con problemi politici, legali o infrastrutturali. Alcune compagnie nazionali hanno difficoltà ad accedere alle tecnologie più recenti oppure al capitale necessario per gli investimenti. Altri vincoli arrivano da questioni ambientali, regolamentazioni, costi crescenti, declino naturale dei campi, e anche dal fatto che non sempre è chiaro se l’aumento del recupero giustifica l’investimento richiesto — specialmente se il prezzo del petrolio non è stabile.

Se davvero l’industria petrolifera riuscirà a sfruttare anche solo in parte questo potenziale, le conseguenze potrebbero essere profonde. In primo luogo, maggiore sicurezza dell’approvvigionamento: non dipendere esclusivamente da nuove esplorazioni, che sono costose e rischiose. In secondo luogo, ritardare o ridurre il bisogno di scoprire campi nuovi — con tutti i rischi ambientali, politici, regolamentari associati. Potrebbe anche cambiare il modo in cui si investe nella transizione energetica: se nel breve-medio termine l’industria utilizza meglio ciò che ha, c’è spazio per politiche che incentivino questi miglioramenti piuttosto che puntare tutto su produzioni completamente nuove. Inoltre, anche se l’attenzione globale è concentrata sulle fonti rinnovabili, il petrolio, almeno per i prossimi decenni, continuerà a essere una componente importante dell’energia globale — e poterlo produrre con maggiore efficienza significa anche potenzialmente minori impatti ambientali per unità di energia generata.

L’analisi “Every Last Drop” mostra che molti dei giacimenti attivi non sono “gratuiti residui da scavare”: sono risorse che, se gestite con cura, modernità, e impegno, possono fornire un contributo sostanziale al fabbisogno energetico mondiale fino al 2050 e oltre. Nonostante le sfide, il fatto che il potenziale sia basato su tecnologie già provate rende l’obiettivo più realistico. Il cammino non è privo di ostacoli, ma la strada c’è, ed è una strada che può cambiare il panorama energetico globale se percorsa bene.

Di Fantasy