Immagine AI

Ci sono momenti in cui una tecnologia non si limita ad aggiungere uno strumento alla cassetta degli attrezzi, ma cambia il modo stesso in cui guardiamo un fenomeno. È ciò che sta accadendo alla sismologia con l’arrivo dell’intelligenza artificiale, che non si accontenta di affinare le misure: amplia i cataloghi dei terremoti, tira fuori dal rumore eventi minuscoli, ridisegna le mappe delle faglie e comincia a far intravedere margini di previsione che fino a ieri sembravano irraggiungibili. Nelle parole e negli esempi raccolti da Alexandra Witze per Knowable Magazine e pubblicati in italiano su Le Scienze, l’AI non è un vezzo high-tech ma un cambio di paradigma: un diverso modo di ascoltare il sottosuolo, di seguirne i sussurri, di comporre un racconto più denso e più vero di ciò che accade prima, durante e dopo uno scuotimento della crosta terrestre.

Il primo effetto, il più spettacolare e insieme il più concreto, è l’esplosione del dettaglio. Gli algoritmi di apprendimento automatico setacciano milioni di segnali e riconoscono, con una pazienza e una coerenza impossibili per una squadra umana, le minuscole variazioni che distinguono un microterremoto da un disturbo qualsiasi. Così i cataloghi sismici si infittiscono e si allungano, non per un’astrazione statistica ma perché eventi reali, prima invisibili, vengono finalmente registrati. Più dati significa storie più precise: sequenze che si svelano retrospettivamente, sciami che si riconoscono per quello che sono, silenzi che smettono di essere buchi e diventano fasi di un processo fisico. È la base su cui si costruiscono mappe di faglie sotterranee più fedeli, con bordi che non sono linee immaginate ma traiettorie di frattura osservate punto per punto.

La mappa non è un esercizio cartografico: è un pezzo di futuro. Sapere dove passano e come si connettono le faglie aiuta a stimare quale magnitudo sia plausibile, dove lo sforzo si accumula, quale segmento potrebbe cedere per primo. Quando questo lavoro di riconoscimento si appoggia a reti di monitoraggio dense e a archivi lunghi, l’AI diventa una lente che mette a fuoco ciò che era sgranato. È accaduto in modo eclatante ai Campi Flegrei, dove un’équipe italo-statunitense ha applicato modelli sviluppati a Stanford ai sismogrammi dell’INGV: da circa dodicimila eventi rilevati tra il 2022 e la metà del 2025 si è passati a oltre cinquantamila, quattro volte tanto, con l’emersione di sistemi di faglie prima solo intuito e, soprattutto, di un’evidente struttura “ad anello” coerente con l’area di sollevamento della caldera. Non è un dettaglio: un anello di fratture lungo e continuo cambia la valutazione del rischio, perché rende pensabili terremoti moderati ma più superficiali, quelli che la popolazione sente di più e che possono fare danni anche senza essere enormi.

Questa nuova capacità di vedere porta con sé un’altra conseguenza, più sottile ma decisiva: la riconsiderazione di ciò che chiamiamo “previsione”. La sismologia classica ha sempre diffidato di profezie puntuali — un’ora, un luogo, una magnitudo — e a ragione. Ma tra l’impossibilità dell’oroscopo e la cecità, si apre uno spazio fatto di segnali precoci, di probabilità aggiornate in tempo quasi reale, di scenari che si raffinano mentre i dati arrivano. L’AI si insinua qui, come una segreteria instancabile che ascolta ogni interferenza e la confronta con milioni di esempi. Non promette magie, bensì un allarme più tempestivo, quando cambia il ritmo degli eventi minimi o quando una famiglia di scosse rivela che la pressione sta premendo in un punto preciso della struttura. Questo è già oggi un aiuto operativo per chi deve decidere come informare i cittadini, come chiudere una scuola per prudenza, come concentrare i controlli sugli edifici più vulnerabili.

C’è anche un aspetto epistemologico, quasi filosofico, che merita attenzione. Per decenni abbiamo letto la Terra con modelli che andavano cercando eleganza e semplicità; ora abbracciamo la complessità, lasciando che sia la trama fitta dei dati a suggerire l’architettura del sistema. Non significa rinunciare alla fisica, al contrario: la si usa per vincolare e per interpretare ciò che l’algoritmo riconosce. L’ibrido che ne nasce — machine learning guidato da ipotesi geofisiche — è la via più promettente per evitare che l’AI diventi una scatola nera e per trasformarla, invece, in una forma di occhiali: uno strumento che ci fa vedere meglio, non che vede al posto nostro. È un punto ricorrente nell’analisi di Le Scienze, dove la prospettiva non è quella di un rimpiazzo dell’esperto, ma di un suo potenziamento nel momento in cui l’esperto deve muoversi in un mare di segnali che nessun occhio, da solo, può scandagliare.

Il racconto dei Campi Flegrei aiuta anche a misurare i limiti attuali, che sono limiti utili perché indicano con precisione dove investire. Il modello che ha quadruplicato gli eventi rilevati non ha trovato prove di migrazione di magma verso la superficie; ha invece evidenziato che la spinta che genera la sismicità recente è legata alla pressione che gonfia la caldera, un fenomeno di lungo periodo conosciuto come bradisismo. È un chiarimento prezioso per la gestione del rischio: l’assenza di segnali “magmatici” non autorizza a rilassarsi, ma sposta l’attenzione sul pericolo più probabile nel breve termine, quello dei terremoti moderati e superficiali. Perché l’AI sia davvero trasformativa, allora, serve continuità: reti di sensori mantenute in efficienza, protocolli di verifica indipendente, procedure per portare i risultati dai laboratori ai centri operativi in modo che una variazione riconosciuta alle otto del mattino diventi un’informazione utile alle nove.

Fuori dall’Italia, lo stesso sguardo si sta posando su altre aree “nervose” del pianeta, dai grandi sistemi di faglia come la San Andreas alle zone vulcaniche dell’Egeo. Le esperienze convergono su un punto: quando i cataloghi diventano cinque volte più completi, come riportato nelle sintesi divulgative che hanno anticipato i risultati a congressi internazionali del 2025, la fisica locale smette di essere ipotizzata e comincia a essere misurata nella sua granularità. È nella noia dei microeventi — quelli che non finiscono nei telegiornali — che si nasconde la dinamica vera; l’AI ci dà finalmente gli strumenti per entrare in quella noia e trovarci, dentro, i pattern che contano.

Il cerchio si chiude quando la scienza tocca la protezione civile. Se l’intelligenza artificiale riesce a estrarre mappe di danno più rapidamente dalle immagini satellitari dopo un sisma, i soccorsi possono essere instradati con più criterio, i ponti controllati nell’ordine giusto, le squadre inviate dove la probabilità di crolli è maggiore. Anche qui i segnali arrivati nel 2025 sono incoraggianti: sfide e competizioni internazionali hanno mostrato che modelli ben addestrati riconoscono le tracce del danno con una velocità che, in emergenza, vale come una risorsa logistica. È un orizzonte contiguo a quello della previsione, e ne condivide le regole: più dati, più trasparenza sui metodi, più dialogo fra chi sviluppa algoritmi e chi poi deve usarli sul campo.

Alla fine, la domanda non è se l’AI “prevederà i terremoti” nel senso ingenuo del termine. La domanda è se ci consentirà di convivere meglio con essi, conoscendoli prima e misurandoli meglio dopo. La risposta che matura negli osservatori e nelle università è prudente e ferma: sì, se sapremo farle le domande giuste, se continueremo a intrecciare dati e teoria, se difenderemo la qualità delle reti di monitoraggio e la cultura dell’interpretazione. È un patto fra tecnica e responsabilità. L’AI non promette certezze, ma restituisce tempo e contesto — due beni che, quando la Terra decide di parlare, non sono mai abbastanza.

Di Fantasy