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C’è una tensione che corre silenziosa nel mondo aziendale legato all’intelligenza artificiale: non è solo questione di “fare meglio” o “fare più in fretta”, ma di cambiare radicalmente il ruolo degli esseri umani. Secondo un recente studio di Anthropic, molte imprese non stanno più usando l’AI come uno strumento che affianca, che potenzia le capacità umane, bensì come un modo per delegare compiti — a volte interi processi — bypassando il contributo diretto del personale. E questa svolta ha implicazioni non banali per il lavoro, per le organizzazioni e per il tessuto sociale del mondo produttivo.

Anthropic ha analizzato l’uso della sua tecnologia — in particolare l’API di Claude — nel corso degli ultimi mesi, osservando che un numero crescente di aziende la utilizza non per assistenza, ma per automazione completa di attività che prima richiedevano l’intervento umano. Non è più tanto “Claude aiuta un operatore” quanto “Claude fa il lavoro da solo”.

Le metriche mostrano che oggi circa il 77% delle imprese studiate utilizza l’AI in modalità che delegano intere attività con input minimo, piuttosto che in modalità di supporto. In pratica, l’AI riceve ordini una volta sola e porta a termine tutto il processo, senza interventi intermedi da parte di esseri umani. È un cambiamento che, secondo Anthropic, è cresciuto: il “tipo di delega completa” delle attività è passato da una proporzione iniziale più ridotta a una quota significativa, attestandosi nell’ultimo periodo attorno al 39%.

Particolarmente interessante è cosa fanno queste aziende: una parte consistente dell’impegno è nel codice, nella programmazione di software. L’uso di Claude per generare codice è uno degli esempi più diffusi. I compiti di debugging, per contro, stanno cominciando leggermente a ridursi, forse perché automatizzare la correzione di errori richiede un grado di affidabilità che lascia margine di esitazione.

L’idea che l’AI sostituisca anziché supporti innerva una serie di preoccupazioni sempre più diffuse. La più immediata è quella della perdita di posti di lavoro: se attività un tempo svolte da persone possono essere affidate interamente a sistemi automatizzati, cosa resta del contributo del personale umano? Alcune aziende vedono l’AI come uno strumento per ridurre costi, per accorciare i tempi, per eliminare errori — ma dietro questi vantaggi c’è la domanda: quanto verrà sacrificato in termini di occupazione, di identità professionale, di senso del lavoro?

Un’altra questione riguarda la qualità e la responsabilità. Quando si automatizzano processi complessi senza supervisione umana significativa, il rischio è che emergano problemi non previsti: errori, bias, mancanza di contesto, reazioni impreviste. Se l’AI sbaglia — in una decisione, in un codice, in un’analisi — chi ne risponde? Se l’essere umano è solo un supervisore in parte, allora le linee di responsabilità diventano sfumate.

C’è anche il tema dell’equità geografica e economica: lo studio segnala che nei paesi con reddito alto l’adozione è più ampia e più variegata, mentre nei paesi emergenti o in via di sviluppo l’uso tende a essere più ristretto, focalizzato su compiti specifici come il coding. Ciò rischia di approfondire il divario digitale: non solo nell’accesso alla tecnologia, ma nella qualità e nella varietà d’uso dell’AI.

Dietro questa scelta ci sono motivazioni pratiche e strategiche che, seppur evidenti, hanno anche costi impliciti che molte organizzazioni sottovalutano. Uno dei fattori è la maturazione dei modelli AI: modelli linguistici e agenti software stanno diventando più affidabili, più capaci di comprendere contesti complessi, di generare codice corretto, di seguire iterazioni logiche, di adattarsi a situazioni variabili. Questo fa sì che affidarsi all’AI non sia più visto come un rischio troppo grande in molte attività, ma come un’opportunità concreta.

Poi c’è la pressione economica: ridurre il personale, abbreviare i tempi, eliminare errori costosi, aumentare l’efficienza operativa sono incentivi fortissimi. L’automazione promette risparmi in termini di salari, costi di formazione, gestione delle risorse umane, supervisione. Per aziende che operano con margini stretti, questi risparmi possono fare la differenza.

Infine, c’è un fattore culturale e strategico: usare l’AI per sostituire ruoli umani è anche un segnale di modernità, di competitività. Aziende che riescono a dotarsi di sistemi automatizzati robusti possono posizionarsi meglio in mercati dove il costo del lavoro è alto, o in settori dove la rapidità e la precisione sono premiate. Questo può generare un circolo virtuoso (per chi adotta) ma anche un rischio di esclusione per chi resta indietro.

Tuttavia, non è detto che l’automazione totale sia sempre la scelta migliore, né che sia sostenibile se applicata indiscriminatamente. Ci sono spazi per modelli “ibridi” in cui l’AI agisce come supporto continuo più che come sostituto, in cui l’essere umano mantiene un ruolo attivo di controllo, interpretazione e decisione.

Alcune aziende potrebbero adottare strategie per coinvolgere i dipendenti più profondamente, garantendo formazione, ridefinizione dei ruoli, valorizzare le competenze creative, di empatia, di giudizio — aspetti che l’AI, almeno per ora, non riesce a sostituire davvero. In questi scenari, l’AI può diventare strumento per alleggerire il carico di lavoro ripetitivo, per liberare risorse mentali, ma non per rimpiazzare completamente.

Anche aspetti normativi e politici avranno un ruolo centrale: protezione del lavoro, regolamentazione sull’uso dell’AI, definizione dei diritti del lavoratore in ambienti fortemente automatizzati, politiche di transizione professionale possono mitigare gli impatti dannosi.

Infine, è importante la trasparenza: che i lavoratori sappiano come l’AI viene usata, cosa si sta delegando, chi decide, con quali criteri, con quali controlli. Se l’AI diventa qualcosa di imposto senza consapevolezza, il rischio è alienazione, sfiducia, equità non garantita.

Se questo trend continua, potremmo entrare in una fase in cui molti ruoli professionali, ancora oggi considerati relativamente sicuri, vengono riconfigurati radicalmente. Non soltanto mansioni ripetitive, ma attività che richiedono combinazioni di conoscenze, analisi, scrittura, decisione, potrebbero essere in parte automatizzate. Il valore del contributo umano potrebbe spostarsi sempre più verso creatività, empatia, pensiero critico, gestione delle ambiguità.

Ci sarà anche una ricaduta sociale: come distribuiamo il valore prodotto? Come assicuriamo che i guadagni dell’automazione non restino concentrati in poche mani? Come garantiamo che le comunità meno avvantaggiate dall’adozione dell’AI non restino emarginate?

Di Fantasy