Immagina di sorvolare la verde immensità delle foreste amazzoniche — un mare di foglie e rami dove migliaia di anni di storia umana giacciono nascosti, sommersi e in attesa. Qui, tra la fitta giungla che si estende su nove stati, potrebbero nascondersi decine di migliaia di siti archeologici ancora invisibili. Un terreno quasi proibitivo da esplorare, dove anche esperti ben equipaggiati faticano ad arrivarci. È in questo contesto che entra in scena l’intelligenza artificiale, offrendo uno sguardo nuovo, potente e altamente efficace.
La foresta amazzonica, con la sua flora nata tra 13.000 anni di convivenza umana, custodisce pitture rupestri e utensili preistorici. Per orientarci in questo labirinto verde, due archeologi hanno unito le forze con OpenAI, l’azienda di ChatGPT, per dar vita a una sfida: l’OpenAI to Z Challenge. Lo scopo? Incoraggiare le menti migliori a esplorare dalle scrivanie, online, grazie a modelli di apprendimento automatico che scandagliano immagini satellitari e dati da sensori remoti.
Il team vincitore, chiamato “Black Bean”, ha passato al setaccio immense porzioni di Amazzonia, elaborando dati LiDAR, immagini satellitari e modelli digitali di elevazione forniti da Google Earth Engine e dalla NASA. Questi strumenti, combinati con GPT-4o, hanno permesso di riconoscere il pattern dei siti archeologici noti e segnalare 67 nuove aree, ciascuna di circa un miglio quadrato, potenzialmente degne di esplorazione sul campo.
Un aspetto particolarmente interessante emerso dal lavoro del team è che molti dei siti individuati si trovano lungo corsi d’acqua, un fatto “logico” per l’archeologia — le antiche civiltà, infatti, prosperavano lì dove l’acqua era accessibile.
Grazie all’IA, algoritmi in grado di elaborare milioni di chilometri quadri di dati rendono possibili scoperte che richiederebbero decine di spedizioni manuali, riducendo drasticamente tempi e costi. Del resto, tecniche affini — satellite imaging, telerilevamento, LiDAR — erano già impiegate da archeologi come Sarah Parcak in Egitto, ma l’IA aggiunge un livello decisamente più proattivo e propositivo: non si limita a “guardare”, ma suggerisce dove scavare.
Non tutto è oro quel che luccica, e anche National Geographic pone domande importanti: OpenAI ha fatto comunicazione senza coinvolgere i gruppi indigeni residenti in quelle aree, i quali potrebbero avere visioni diverse su come considerare il loro patrimonio archeologico. La scoperta non deve essere solo tecnologica, ma anche rispettosa, sostenibile e condivisa