Forse non ce ne rendiamo conto, ma dietro ogni interazione con l’intelligenza artificiale si nasconde un profilo umano, fatto di sesso, età, bisogni, abitudini. Una recente ricerca di OpenAI, presentata in un post ufficiale, rivela che ChatGPT non è più uno strumento dominato in larga parte da uomini, usato soprattutto per lavoro, come molti immaginavano. I numeri raccontano una storia diversa: oggi, le donne rappresentano la maggioranza degli utenti, e l’uso dell’applicazione è molto più spostato verso il personale che verso l’ufficio, la produttività o le attività professionali.
Lo studio ha analizzato 1,5 milioni di conversazioni con ChatGPT, raccolte tra maggio 2024 e giugno 2025. Ci sono voluti esperti economisti dell’economia comportamentale, insieme al team di ricerca economica di OpenAI, per scavare nei dati e tirar fuori trend che descrivono non solo “chi parla con l’AI”, ma “perché” lo fa. I risultati sono illuminanti perché sfidano alcune delle nostre convinzioni più diffuse sull’uso dell’AI.
Alla nascita di ChatGPT, la comunità online — almeno quella che produceva commenti, che si faceva sentire — sembrava composta in prevalenza da uomini. Parliamo di proporzioni che vedevano il 80% degli utenti con nomi considerati maschili. Però, nel corso del tempo, qualcosa è cambiato in modo sostanziale. Nelle analisi successive, Windows e anno nuovo, la percentuale è diventata 63-37 (maschi/donne), e ora, più recentemente, la proporzione si è capovolta: le donne superano gli uomini come utenti attivi. È un passaggio interessante non solo da un punto di vista statistico, ma anche culturale: suggerisce che la diffusione e l’accettazione di queste tecnologie stiano varcando confini di genere precedentemente più rigidi.
Altro elemento sorprendente rilevato: la crescita significativa nell’adozione in paesi con reddito basso. Anche se il report non indica precisamente quali siano questi paesi, l’aumento del tasso di utilizzo in comunità che spesso hanno infrastrutture tecnologiche meno sviluppate è molto più alto rispetto ai paesi ricchi. In termini pratici, l’AI — o almeno ChatGPT — sta diventando una risorsa globale, non solo un gadget delle nazioni più avanzate.
Forse la parte che più sorprende è quanto ChatGPT sia diventato uno strumento della vita privata. Mentre in passato le interazioni lavorative – bozze, codifiche, ricerche professionali – avevano un peso simile a quello personale, oggi la maggioranza delle conversazioni è dedicata a questioni non legate al lavoro. Circa il 65% degli scambi tramite ChatGPT è personale: chiedere informazioni di vario tipo, divertimento, esplorazione, riflessione, curiosità, anche consigli, intrattenimento o espressione creativa.
Pur essendoci ancora una quota ragionevole dedicata al lavoro: scrittura di bozze, ricerca, pianificazione, coding. Quest’ultimo, pur non essendo dominante, mostra segni di crescita: non è più qualcosa di marginale, ma un’area che sta emergendo con forza, segno della versatilità dell’AI.
Una classificazione interessante che è stata fatta riguarda le “categorie” di uso: “chiedere” (informazioni, domande varie), “esecuzione” (mettere in atto attività: redazione, analisi, pianificazione, coding), e “espressione” (momenti personali, creatività, introspezione). La categoria “chiedere” ha la fetta più grande, quasi la metà delle interazioni complessive, mentre “espressione” è più piccola, pur significativa, soprattutto per chi utilizza ChatGPT non solo come strumento, ma come spazio personale.
Questo spostamento nel tipo di uso e nel profilo dell’utente ha molte conseguenze, implicite ma profonde. In primo luogo, apre una riflessione su come le interfacce, le funzionalità e le policy di piattaforme AI dovrebbero evolvere per rispondere ai bisogni personali, non solo a quelli professionali. Se molte persone usano ChatGPT per creatività, per riflessione, per semplici domanda-risposta nella vita quotidiana, allora diventa importante che l’AI sia amichevole, empatica, comprenda il contesto emotivo, tenga conto della privacy personale, dei contesti culturali.
Inoltre, un uso personale predominante implica che le aspettative su accuratezza, tono, sicurezza crescono in modo diverso. Quando qualcuno chiede qualcosa per lavoro, magari accetta qualche errore, verifica, rivede. Quando l’uso è personale, emotivo, quotidiano, la tolleranza per risposte sbagliate o forzate è probabilmente minore, o comunque diversa: le persone si aspettano che l’AI “capisca” di più del loro stato, del loro umore, del contesto.
Un terzo punto riguarda la crescita nei paesi a reddito basso: questo può significare che l’accessibilità all’AI sta migliorando — migliore connettività, maggiore diffusione dei dispositivi, politiche aziendali o governative che sostengono l’uso — ma anche che bisogna essere attenti alle disuguaglianze che restano: qualità di rete, linguaggio, disponibilità locale, lingua madre, risorse per chi comunità linguistiche e culturali diverse.
E’ probabile che vedremo ChatGPT e modelli simili rafforzare funzionalità orientate all’ambiente personale e domestico: consigli, coaching, intrattenimento, creatività, supporto emotivo, aiuto nella gestione quotidiana (piani alimentari, routine, apprendimento). Potrebbero emergere opzioni dedicate o profili utente che separano meglio il lavoro dal personale, con adattamenti più sottili di stile, livello tecnico, tono della conversazione.
Anche il design dell’interfaccia utente potrebbe evolversi: funzionalità che permettono di “salvare momenti personali”, “raccogliere creatività”, “diari digitali”, oppure un maggiore controllo sulla privacy, su cosa rimane memorizzato, su come l’AI tratta dati personali.
Inoltre, dal punto di vista dell’educazione e della formazione, questi dati suggeriscono che le nuove generazioni, soprattutto giovani, vedono l’AI come parte naturale della vita quotidiana, non solo come strumento di lavoro. Questo influisce su come si insegna, su come si regolamenta, su cosa la società considera una buona interazione con l’AI.