Nel 2025 la produzione automatica di video non è più soltanto una promessa fantascientifica, ma qualcosa che si sta diffondendo rapidamente: strumenti come Sora di OpenAI, Veo 3 di Google DeepMind e Gen-4 di Runway stanno cambiando il modo in cui pensiamo al video—sia in contesti professionali che creativi, social, televisivi. Ma cosa succede “sotto il cofano”? Quali tecnologie, sfide e limiti stanno rendendo possibile — e complicato — generare video realistici da un comando testuale o da poche immagini?
Solo pochi mesi fa, le generazioni video AI erano quasi tutte prototipi o demo curate, spesso con limiti molto visibili. Oggi, invece, strumenti come Sora, Veo 3 e Gen-4 permettono a quasi chiunque — con un abbonamento – di chiedere a un sistema di generare clip video abbastanza realistiche, completi di movimento, di ambientazione, con luci, prospettive, scenari che fino a poco tempo fa richiedevano cameraman, set, montaggio. Anche nel campo dell’intrattenimento: Netflix, per esempio, ha iniziato ad usare effetti generati dall’IA nella serie The Eternaut, un segnale chiaro che questi strumenti stanno entrando anche nei media “di massa”.
Questa democratizzazione, però, non significa perfezione: i risultati non sono sempre uniformi, ci sono difetti — artefatti visivi, incoerenze nei movimenti da frame a frame, limiti nella risoluzione o nella lunghezza del video — ma la soglia in cui questi difetti diventano visibili o fastidiosi si è spostata molto in alto.
Per capire come funzionano questi modelli, è utile immaginare il problema dal punto di vista tecnico: un video non è una singola immagine, ma una serie di immagini (i frame) legate tra loro dal tempo, con oggetti che cambiano posizione, luci che mutano, suoni che si sovrappongono. Rendere tutto questo coerente, realistico, credibile richiede soluzioni specifiche.
Una delle tecnologie centrali è la diffusione latente (latent diffusion models). Invece di generare ogni frame pixel per pixel in modo diretto, il sistema lavora in uno spazio compresso (latente), dove le immagini sono rappresentate in forma codificata più leggera. Il modello impara a partire da immagini “rumorose” — degradate — a ricostruire progressivamente versioni pulite, realistiche, seguendo prompt (testi descrittivi) o condizioni aggiuntive.
Un altro elemento importante è l’uso di transformer per mantenere la coerenza tra i frame. I transformer — architetture nate per trattare sequenze di token (nel linguaggio) — vengono adattati per gestire sequenze temporali: ogni “token” può essere una porzione spaziale di un frame, ma anche un frammento temporale, un “patch” che si estende attraverso più frame. Questo permette di modellare non solo come appare qualcosa in un singolo frame, ma come si muove, come cambia da un frame all’altro. Senza questo, un’onda che si muove, un volto che gira, o un oggetto che si sposta possono apparire disgiunti o instabili.
Un’altra sfida: garantire che il video non “scatti” o cambi stile da un momento all’altro. Per questo si lavora su dataset video molto ampi, che includono movimenti, ambientazioni variabili, luci diverse, scorci in movimento, e si addestra il modello affinché gli oggetti mantengano la coerenza visiva — ad esempio che una auto rimanga la stessa auto, che un volto resti lo stesso anche con luce diversa.
L’audio, che per molto tempo è stato un punto debole o assente nelle generazioni video automatiche, oggi diventa integrato: Veo 3, per esempio, genera dialoghi, suoni ambientali, rumori sincronizzati, integrando audio e video nel processo. Ciò richiede che il modello gestisca anche segnali sonori, sincronizzazione, mixaggio, non solo immagine.
Ognuno di questi modelli ha pregi distinti e limiti, che lo rendono più adatto a certi usi che ad altri:
- Sora (OpenAI): permette video relativamente brevi (secondi), con buona qualità visiva e fedeltà al prompt testuale. Supporta diverse risoluzioni e formati. Un punto di forza è la robustezza del sistema di filtraggio dei contenuti: cerca di evitare contenuti sensibili o abusi, ad esempio limitando la generazione di volti realistici in certe condizioni.
- Veo 3 (Google DeepMind): uno dei plus è l’audio integrato nativamente, come detto. Offre versioni “più rapide” o “Fast” che permettono generazioni meno costose ma con qualche compromesso sulla qualità. È forte nel sincronizzare elementi audio-video, gestire relazioni ambientali, movimento.
- Gen-4 (Runway): si distingue per la flessibilità nei formati (orientamento verticale, orizzontale), per la capacità di utilizzare immagini di riferimento (reference images) per mantenere coerenza visiva, e per miglioramenti nella riduzione degli errori visivi tipici delle versioni precedenti. È pensato anche per creatori che vogliono combinare elementi reali, CGI, effetti speciali.
Con tutti questi passi avanti, le difficoltà non sono sparite. Alcune restano tecnologiche, altre sociali, altre etiche. Il consumo energetico è enorme. Generare video — specie con audio, con molti frame, con alta risoluzione — richiede calcoli pesanti, GPU potenti, infrastrutture costose. Anche con tecniche di compressione e diffusione latente, il carico rimane elevato.
Poi c’è il tema dei contenuti falsi, manipolati, deepfake, uso illecito. Quando diventi facile generare video realistici con prompt arbitrari, diventa anche più semplice creare disinformazione, clonare volti, usarli in modo ingannevole. Servono controlli, filtri, trasparenza: chi ha generato cosa, con quale modello, con quali dati di allenamento.
Un’altra sfida tecnica è mantenere la coerenza su lunghe durate: video brevi si possono controllare, ma se il video dura decine di secondi o minuti, con cambi di scena, movimento, cambi di luce, oggetti che si muovono, il modello può vacillare: compaiono artefatti, salti, differenze di stile, mancanza di dettaglio. Anche gestire le prospettive, riflessi, occlusioni (quando un oggetto ne nasconde un altro) rimane complicato.
Tutto questo non è solo “interessante da un punto di vista tecnologico”: ha ricadute reali. Per chi crea contenuti, questi strumenti offrono nuove possibilità: produrre video in modo più veloce, sperimentare stili, generare bozze, prototipi, ma anche arrivare a prodotti finiti con meno costi. Si alza anche la soglia di accesso: non serve un grande studio, attori, set fisico, staff enorme: in molti casi bastano prompt, immagini di riferimento, un po’ di editing.
Per l’industria (pubblicità, marketing, cinema, social media) significa che il ritmo di produzione cresce, che la personalizzazione diventa più fattibile, che le campagne possono essere più sperimentali, più agile. Ma anche che emerge una competizione forte: chi non usa questi strumenti rischia di restare indietro, ma chi li usa deve saper gestire qualità, autenticità, diritti d’autore, etica.
A livello culturale, cambia anche la percezione del reale: quando diventa difficile distinguere un video generato da IA da uno “vero”, cresce la domanda di fiducia, di trasparenza, di “segnali” che indichino ciò che è generato artificialmente. Ci sarà bisogno di norme, di linee guida, forse di “etichette IA”, forse di controlli che permettano alle persone di sapere se un video è stato creato artificialmente.
I video generati dall’IA stanno passando da curiosità a strumento concreto: non perfetti, ma potenti, flessibili, accessibili. Modelli come Sora, Veo 3 e Gen-4 segnano una soglia importante: portano la generazione video generativa fuori dai laboratori e dentro l’uso quotidiano.
Ma questo nuovo territorio richiede consapevolezza: non basta poter generare, bisogna chiedersi come, con quali dati, con quale responsabilità, con quale rispetto per i diritti delle persone (di chi appare nei video o di chi ha creato contenuti simili), con quale trasparenza, con quale controllo sui modelli e sull’uso.
L’IA video non è destino inevitabile né minaccia automatica: può essere opportunità straordinaria, se la costruiamo bene. E per farlo serve che tutti — creatori, industrie, legislatori, utenti — partecipino, consapevoli, criteriosi, desiderosi non solo di spettacolo, ma di qualità, umanità, verità.