Fino a poche settimane fa, il braccio di ferro tra i giganti della tecnologia e gli editori sembrava destinato a protrarsi all’infinito. Google, da sempre assertore della “ricerca libera”, ha improvvisamente annunciato la volontà di avviare un programma pilota per riconoscere e remunerare i giornali il cui contenuto viene utilizzato per addestrare i suoi modelli di intelligenza artificiale. Un cambiamento epocale, dettato non solo da azioni legali in corso in diversi Paesi, ma anche dal crescente malcontento delle redazioni, che lamentavano l’uso indiscriminato dei loro articoli senza alcun ritorno economico.
Le trattative hanno coinvolto oltre venti testate, tra piccole realtà digitali e grandi editoriali già noti in tutto il mondo, con l’obiettivo di definire formule di compenso che tengano conto della mole di dati effettivamente utilizzati e del valore aggiunto fornito dall’AI nelle aggregazioni, sintesi e rielaborazioni. Google, dal canto suo, ha dichiarato di voler sperimentare «forme innovative di partnership», lasciando intendere che non si tratterà di un semplice pagamento per parola, ma di accordi più complessi basati su revenue share e licenze pluriennali.
Questa svolta non è un caso isolato: OpenAI, Microsoft e altri player hanno già siglato intese con editori per integrare contenuti premium nei propri sistemi, riconoscendo implicitamente che la qualità delle fonti è un fattore decisivo per l’affidabilità dell’AI. Il coinvolgimento di provider di servizi web come Cloudflare, che hanno reso disponibile nuovi tool di controllo per limitare il crawling non autorizzato, ha accelerato il percorso verso accordi regolari e trasparenti.
L’imbuto normativo che si sta formando – tra leggi europee, sentenze nazionali e regolamentazioni antitrust – sembra destinato a definire un nuovo equilibrio: quello in cui contenuti e creatori di valore vengono finalmente riconosciuti come pilastri imprescindibili dell’ecosistema AI.