Quando Google ha presentato Opal come esperimento di Google Labs, l’idea era audace: permettere a chiunque — anche senza competenze di programmazione — di trasformare una descrizione in linguaggio naturale in una mini-app funzionante. In breve, chiedi “voglio un’app che faccia questo” e Opal traduce l’idea in un flusso visivo di operazioni intelligenti. Ma, come accade spesso in tecnologia, tra il sogno e la realtà c’è una fase sperimentale, che nel caso di Opal include ancora una restrizione geografica: per ora il servizio è disponibile solo negli Stati Uniti.
Opal nasce con la promessa di “vibe coding” — ovvero un modo in cui non descrivi come costruire l’app, ma cosa vuoi che faccia, e l’AI si occupa del resto. Google offre due modalità di interazione: una conversazionale, in cui spieghi in parole semplici ciò che desideri, e poi una visiva, dove il flusso dell’app viene mostrato graficamente con “step” collegati che rappresentano input, generazione, trasformazioni e output. Puoi toccare ogni passo, modificarlo, intervenire con prompt nuovi o aggiungere logiche personalizzate. Alla fine, l’app può essere condivisa tramite link: chiunque abbia un account Google può usarla. L’idea è che i confini tra idea e prototipo diventino labili, accelerando sperimentazione e creazione.
Ma nella pratica, chi può davvero usare Opal oggi? Google ha reso chiaro che Opal è in “public beta” disponibile solo negli Stati Uniti al momento del lancio. Questo significa che, se provi ad accedere da un paese esterno agli USA, riceverai un avviso del tipo “non disponibile nel tuo paese”. Questo vincolo è confermato da più fonti che riportano che, per ora, l’esperimento è limitato geograficamente.
Questa assenza dell’Italia — e di altri paesi — non è casuale: Google sta probabilmente raccogliendo feedback dagli utenti statunitensi per migliorare stabilità, flessibilità, interfacce e integrazioni prima di pensare a un’espansione globale. Limitare la diffusione permette di controllare variabili come carico server, compatibilità client, latenza e problemi legali di privacy o regolamentazioni locali.
Non significa che sia impossibile provare Opal dall’Italia, ma le soluzioni alternative sono non ufficiali e con limiti evidenti. Alcuni suggeriscono l’uso di una VPN per “mascherare” la propria ubicazione e accedere come se ci si trovasse negli USA. Tuttavia, questa non è una modalità garantita né supportata da Google, e può comportare problemi di prestazioni, compatibilità o violazione dei termini d’uso.
Da punto di vista funzionale, Opal appare già promettente: consente di prototipare app semplici come generatori di contenuto, piccoli strumenti di automazione, interfacce di input/output combinate con modelli AI e flussi di lavoro personalizzabili. Non è pensato per sistemi complessi né per integrazioni massicce a database o backend esterni (almeno in questa fase). Ma l’esperienza utente è progettata per essere trasparente: vedi il flusso, lo tocchi, lo modifichi.
Per l’Italia, quindi, Opal rimane per ora un’aspettativa. Gli sviluppatori, creativi digitali e appassionati italiani dovranno attendere finché Google deciderà un rilascio internazionale, o sperimentare soluzioni alternative che offrano no-code AI simili ma già utilizzabili nel nostro Paese.