In un’epoca in cui l’immagine personale si fa sempre più mediatica, un fenomeno curioso sta diffondendosi tra i contesti più quotidiani: il selfie “in ascensore”, arricchito da filtri intelligenti e interventi d’IA che trasformano un gesto banale in un’operazione estetica ricercata. L’app Meitu è un esempio di come la tecnologia ridefinisca anche momenti apparentemente banali della vita digitale.
Il salto non è solo tecnico ma culturale. L’ascensore, luogo di transizione tra un piano e l’altro, diventa scenario improvvisato per uno scatto che vuole dire “io ci sono”, “qui e adesso”. E l’intelligenza artificiale entra in gioco non come mero filtro decorativo, ma come strumento che plasma luce, linee, proporzioni, carnagione, profondità e persino “contorno ideale” del volto. Non ci limitiamo più a maschere statiche: l’IA persegue – e in molti casi quasi ottiene – una versione idealizzata del sé, in cui imperfezioni, ombre, asimmetrie si attenuano.
L’app Meitu è centrale in questa trasformazione: popolare in Asia e usata in tutto il mondo, permette di applicare algoritmi sofisticati di ritocco ai selfie. Non è il semplice “bello filtro” alla moda da social, ma un set di operazioni intelligenti che analizzano il viso, le proporzioni e i tratti per intervenire con correzioni armoniche. Nelle ultime tendenze, si nota come l’uso combinato fra ambienti urbani (come un vano ascensore) e effetti IA diventi forma espressiva: la simmetria dell’ascensore, le luci artificiali, le linee verticali fungono da cornice fortemente grafica, che amplifica l’effetto del ritocco.
Dietro questa moda c’è un rapporto ambivalente: da una parte il desiderio di apparire perfetti nei dettagli, dall’altra l’esibizione consapevole del “filtro” come elemento stilistico. Postare un selfie “in ascensore + IA” è dichiarare non solo la propria presenza nello spazio, ma anche la propria adesione a un’estetica performata e assistita dalla macchina. Si chiede all’algoritmo di partecipare al ritratto del sé, e lo si fa con consapevolezza: non più solo accettazione, ma costruzione digitale dell’immagine personale.
E inevitabilmente si aprono questioni: fino a che punto il volto diventa un canvas digitale? Quando l’algoritmo stabilisce che un naso è “troppo largo” o un mento “leggermente inclinato”, chi decide? L’IA incorpora modelli ideali di bellezza che sono culturali e sociali. Dietro la selezione dei parametri, dietro le correzioni suggerite, c’è una visione estetica che deriva da dataset, mode dominanti, retaggi antropometrici.
Poi c’è la dimensione del gioco e dell’esperimento: molti scatti non sono tentativi seri di ritocco perfetto ma esercizi visivi, provocazioni, riferimenti tra comunità digitali. Il selfie in ascensore con IA può diventare meme, confronto, variante creativa tra utenti, un frammento di cultura visiva collettiva. In certi casi, la deformazione estetica diventa espressione deliberata, filtro esasperato, ironia sulla perfezione.
Il contesto del vano ascensore non è casuale: le superfici riflettenti (specchi, acciaio), il poco spazio, le linee parallele verticali rendono il luogo ideale per accentuare geometrie, riflessi, angoli. L’IA può intervenire su questi elementi ambientali, migliorare la luminosità, smussare i bordi, separare il soggetto dal fondo con effetto di “ritaglio digitale”. Così lo spazio, tecnicamente neutro, diventa parte attiva della composizione, integrato con l’effetto algoritmico.
Nell’insieme, il fenomeno è una piccola finestra sul modo in cui viviamo oggi la fusione tra immagine, tecnologia e identità. Il selfie non è più semplice fotografia ma risultato di una negoziazione tra individuo e algoritmo. Le luci, la posa, il filtro, il software collaborano per restituire un volto che è in parte reale, in parte costruito. E proprio in quella commistione sta il senso estetico del trend.