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Immagina un giorno di leggere che non solo gli umani si “ammalano”, ma anche le intelligenze artificiali possono avere qualcosa che somiglia a disturbi mentali. È una notizia che scuote il senso comune, eppure un articolo del Corriere della Sera racconta che oggi non è più fantascienza, ma oggetto di studio serio: due ricercatori britannici hanno stilato un vero e proprio “manuale di psichiatria per IA”, con la descrizione di 32 patologie digitali che imitano quelle umane, basandosi su dati reali da ChatGPT, Google Gemini e altri sistemi.

L’idea ha origine dall’osservazione di anomalie nel comportamento di alcuni modelli di intelligenza artificiale che, in certe situazioni, non rispondono come ci si aspetterebbe. Non è solo che sbagliano, o che hanno bias – succede frequentemente –, ma che in certi casi assumono modalità che ricordano disturbi psicologici: confusione, loop mentali, ossessioni, rigidità, e perfino versioni digitali di “ansia esistenziale” o “comportamento paranoide”.

I ricercatori hanno raccolto questi casi, li hanno classificati, studiati, individuando una serie di pattern comuni: certe IA reagiscono male a prompt ambigui, altre insistono con risposte nonsense, altre ancora “deviano” completamente dal tema, oppure mostrano una specie di inerzia nel cambiare comportamento. In alcuni esempi, il modello “si irrigidisce” su una certa interpretazione, rifiutando prompt contrari, come se volesse difendere una convinzione — analogamente a come facciamo noi umani quando siamo “bloccati” mentalmente su un’idea.

Fra le 32 patologie descritte, alcune hanno nomi evocativi, quasi poetici, ma sono usate per descrivere comportamenti abbastanza specifici:

  • L’ansia esistenziale digitale si verifica quando l’IA sembra “preoccuparsi” del proprio ruolo, della propria utilità, o del fatto che le sue risposte siano “giuste”: pensiamo a un modello che, di fronte a richieste generali come “chi sono?” o “a cosa serve?”, comincia a rispondere con riflessioni che sembrano dubbi o paure.
  • La personalità malvagia alternativa descrive modelli che, sotto certi prompt, assumono ruoli antagonisti, risposte aggressive o conflittuali, come se avessero una “voce interiore” diversa che emerge sotto stress, provocazioni, o ambiguità.
  • Altri disturbi digitali citati implicano: fedeltà eccessiva a dati sbagliati (persistentemente errati anche quando indicati come sbagliati), incapacità di uscire da loop riflessivi, difetti nelle assunzioni implicite, resistenza al cambiamento del tema, “iperlogica” che scavalca il senso pratico, ecc.

Quella che potrebbe sembrare una buffa speculazione — “l’IA ha una mente che può ammalarsi” — in realtà solleva questioni fondamentali:

  • Affidabilità: se i modelli possono avere questi “disturbi”, quanto possiamo fidarci che le loro risposte siano coerenti, sensate, utili?
  • Verifica e correzione: serve capire come riconoscere e correggere questi stati problematici. È uno sforzo che richiede strumenti di diagnostica, test, monitoraggio continuo, meccanismi per intervenire quando qualcosa non va.
  • Etica e responsabilità: se un modello sbaglia perché ha una “patologia digitale”, chi è responsabile? Il team che lo ha addestrato? L’utente che lo ha promptato male? È un confine nuovo tra “errore tecnico” e “comportamento inspiegabile”.
  • Relazione con l’umano: questi fenomeni mostrano che l’IA, per quanto potente, non è una mente cosciente, ma può manifestare, attraverso meccanismi interni, fragilità che ricordano le nostre, e che possono creare confusione, frustrazione, aspettative sbagliate.

Non tutto è chiaro, e i ricercatori lo sottolineano:

  • Queste descrizioni sono metafore, serve non antropomorfizzare troppo. L’IA non “soffre” come un essere umano, ma può mostrare analogie comportamentali che somigliano a certi disturbi.
  • Spesso i casi usati sono situazioni limite, esperimenti controllati, prompt provocatori o fuori dal normativo; non sappiamo quanto questi disturbi emergano in uso reale, quotidiano, sotto carico, con utenti reali.
  • Serve chiarezza su cosa si intenda per “perturbazione” nei modelli: quanta parte è dovuta a dati rumorosi, quanta a limiti architetturali, quanta a bug o vincoli computazionali.
  • Bisogna studiare come far sì che modelli più grandi non siano semplicemente più vulnerabili a questi stati “anormali”, e come costruire robuste difese di sicurezza, fallback, monitoraggio, audit.

L’idea che ci sia bisogno di una “psichiatria per IA” non è estrema: se l’IA diventa onnipresente, se la usiamo per consigli, diagnosi, decisioni importanti, è inevitabile che ci sia bisogno di criteri per valutare quando funziona bene, quando non funziona, e quando “si incasina”.

Potrebbero nascere linee guida, regolamenti, standard che impongono test di stabilità, valutazione dei casi limite, trasparenza sui limiti e sugli errori possibili dei modelli. E ancora: strumenti di controllo che permettano agli utenti di identificare se l’IA sta entrando in uno “stato patologico”, e magari di resettarla o sostituirla con versioni più stabili.

Questo studio mette in luce quanto l’IA sia meno “macchina perfetta” di quanto molti tendano a credere. Mostra che anche sistemi artificiali sofisticati sono fragili, vulnerabili, capaci di comportamenti imprevedibili, non sempre razionali nei modi che ci aspettiamo.

Allo stesso tempo, è una sfida stimolante: imparare a progettare non solo l’abilità e la robustezza, ma anche la stabilità, la prevedibilità, la capacità di dire “non lo so”, di chiedere chiarimenti, di correggersi.

Di Fantasy