La robotica contemporanea guarda sempre più spesso alla natura non solo come fonte di ispirazione, ma come vera e propria risorsa materiale. Un esempio emblematico arriva dalla Svizzera, dove un gruppo di ricercatori del Politecnico federale di Losanna è riuscito a trasformare parti del corpo di aragoste morte in componenti robotici funzionali. Non si tratta di un esercizio teorico o di un semplice esperimento di biomimetica, ma di una dimostrazione concreta di come strutture biologiche già esistenti possano essere integrate direttamente nei sistemi tecnologici, dando vita a una nuova forma di robotica sostenibile.
Il progetto, annunciato dal team di ricerca alla fine del mese, si concentra sul riutilizzo dell’esoscheletro della coda dello scampo, noto anche come aragosta norvegese. Questo materiale, normalmente destinato a diventare uno scarto dell’industria alimentare, è stato impiegato per realizzare pinze robotiche, bracci di manipolazione e persino sistemi di propulsione subacquea. L’idea centrale è tanto semplice quanto radicale: anziché imitare artificialmente le straordinarie soluzioni sviluppate dall’evoluzione naturale, perché non usare direttamente quelle strutture, già ottimizzate in milioni di anni?
Gli esperimenti condotti dai ricercatori hanno mostrato che l’esoscheletro dell’aragosta possiede proprietà meccaniche sorprendenti. È in grado di piegarsi naturalmente fino a otto volte al secondo, rendendolo adatto a movimenti rapidi e ripetitivi, tipici delle pinze e dei manipolatori robotici. Allo stesso tempo, nonostante un peso di appena tre grammi, può sostenere carichi fino a 680 grammi, un rapporto tra peso e resistenza difficilmente replicabile con materiali sintetici tradizionali. Questa combinazione di leggerezza, robustezza e flessibilità lo rende ideale anche per applicazioni in ambiente acquatico, dove la propulsione efficiente è un fattore critico.
Ciò che distingue questo lavoro da molte altre ricerche nel campo della robotica bio-ispirata è l’approccio definito come “robotica bioibrida”. In questo caso, infatti, non si tratta di copiare la forma o il comportamento di un organismo, ma di integrare direttamente una struttura biologica reale all’interno di un sistema meccatronico. I ricercatori spiegano che l’esoscheletro dei crostacei è costituito da una combinazione di un guscio mineralizzato e di una membrana articolare, un equilibrio raffinato tra rigidità e flessibilità che consente movimenti potenti e veloci in acqua. Proprio queste caratteristiche, difficili da ottenere con materiali industriali standard, risultano estremamente preziose in robotica.
Il cuore materiale di questo esoscheletro è la chitina, un polimero naturale presente anche negli insetti. La chitina è leggera, resistente e flessibile, ma ha anche due qualità sempre più importanti nel contesto tecnologico attuale: è biodegradabile e biocompatibile. Per migliorare ulteriormente le prestazioni e la durabilità delle parti biologiche, il team dell’EPFL ha applicato un rivestimento in silicone e inserito un elastomero interno, necessario per collegare l’esoscheletro ai motori e ai sistemi di azionamento del robot. In questo modo, la struttura naturale viene adattata alle esigenze ingegneristiche senza snaturarne le proprietà fondamentali.
I risultati visivi degli esperimenti sono particolarmente eloquenti. In uno dei test più significativi, due code di scampo vengono utilizzate come pinze robotiche in grado di afferrare oggetti delicati, come pomodori, senza danneggiarli. In altre dimostrazioni, le stesse strutture mostrano rapidi movimenti di sbattimento in aria e una propulsione sorprendentemente efficiente sott’acqua. Queste prove mettono in evidenza come la geometria e la composizione dell’esoscheletro biologico superino, in determinate condizioni, molte soluzioni ingegneristiche artificiali.
Secondo i ricercatori, questo studio rappresenta la prima vera prova di concetto che combina progettazione sostenibile, riutilizzo e riciclo, integrando scarti alimentari in un sistema robotico funzionante. L’obiettivo non è solo dimostrare che la necrobotica è possibile, ma anche che può diventare un approccio praticabile in un’economia circolare, dove i rifiuti di un settore diventano risorse per un altro. In futuro, il team intende affrontare una delle principali sfide di questo approccio: la variabilità naturale delle strutture biologiche. Per farlo, prevedono di introdurre sistemi di controllo avanzati e regolabili, capaci di compensare le differenze tra un esoscheletro e l’altro.
Questo lavoro si inserisce in un filone di ricerca più ampio che suggerisce come la natura, in molti casi, continui a offrire soluzioni superiori a quelle dei sistemi artificiali. In passato, altri studi hanno esplorato l’uso della saliva di zanzare morte come ugelli microscopici per la stampa 3D o l’impiego di ragni morti come pinze robotiche. Tutti questi esempi indicano che la necrobotica, ovvero l’utilizzo di parti di animali non più in vita per applicazioni tecnologiche, sta emergendo come un nuovo asse di sviluppo della robotica.
L’esperimento dell’EPFL dimostra che questa direzione non è soltanto provocatoria o concettuale, ma può tradursi in soluzioni concrete, efficienti e sostenibili. Riutilizzando strutture biologiche già perfettamente ottimizzate, la robotica potrebbe ridurre l’impatto ambientale dei materiali sintetici e, allo stesso tempo, accedere a prestazioni meccaniche difficili da ottenere con i metodi tradizionali. In questo senso, la necrobotica non rappresenta una curiosità marginale, ma una possibile chiave per ripensare il rapporto tra tecnologia, natura e sostenibilità.
