Il mondo dell’intelligenza artificiale sta vivendo una delle sue fasi più entusiasmanti ma, allo stesso tempo, più frustranti: da un lato, le demo di agenti autonomi che prenotano voli, scrivono codice o analizzano dati fanno impazzire di entusiasmo chiunque segua l’AI; dall’altro, quando queste tecnologie arrivano nel mondo reale delle imprese, troppe volte finiscono per deludere aspettative e non portare valore tangibile. Il problema non è la mancanza di innovazione nei modelli, ma il fatto che spesso questi agenti sono trattati come scatole magiche piuttosto che come sistemi software complessi che richiedono un’architettura solida e ripetibile. Questa è l’idea al centro della discussione di Antonio Gulli, ingegnere senior di Google e direttore dell’Engineering Office of the CTO, che ha recentemente spiegato perché i design pattern agentic rappresentano il legame mancante tra le entusiasmanti demo di IA e le applicazioni aziendali affidabili e scalabili.
L’esperienza sul campo mostra che la maggior parte dei progetti di intelligenza artificiale non riesce a creare valore economico significativo una volta uscita dall’ambiente di prova: secondo uno studio citato nell’articolo, circa il 95% dei progetti fallisce nel superare la transizione dal sandbox al mondo reale a causa di casi limite, allucinazioni o difficoltà di integrazione con i sistemi esistenti. Questa statistica mette in luce una verità spesso ignorata: non basta un modello potente per risolvere problemi aziendali complessi, serve un modo metodico di progettare e costruire sistemi basati su agenti autonomi che siano robusti, sicuri e manutenibili.
Per Gulli, la soluzione non risiede nel rincorrere continuamente l’ultimo algoritmo “alla moda”, ma nel pensare all’ingegneria dell’IA come si farebbe con qualsiasi altro grande sistema software. In altre parole, è necessario spostare l’attenzione dai modelli e dai prompt alla struttura di sistema, alla sua architettura, e a un insieme di pattern di progettazione che guidino la costruzione di agenti affidabili. In questo senso, il concetto di design pattern, già celebre nel mondo della programmazione software dagli anni ’90, viene applicato al contesto degli agenti intelligenti: non si tratta più di risolvere un problema una tantum, ma di definire modelli architetturali ripetibili e robusti che possano essere utilizzati per affrontare sfide comuni nello sviluppo di sistemi agentic.
Nel suo libro, Gulli identifica ventuno pattern fondamentali che costituiscono i “mattoni” per sistemi agentic affidabili. Questi pattern non descrivono tecniche di prompt engineering o trucchi linguistici, ma piuttosto come un agente pensa, ricorda e agisce in un contesto produttivo. L’obiettivo è trasformare agenti che sembrano brillanti in demo in strumenti utili, predicibili e integrabili nei flussi di lavoro aziendali. È questa disciplina strutturale che consente di affrontare problemi di scala, coerenza e manutenzione nel tempo.
Una delle prime lezioni che emergono nella discussione sui pattern agentic è che bisogna superare l’approccio tradizionale in cui un assistente IA fornisce risposte immediate sulla base di un prompt. Invece, bisogna considerare come un agente pianifica, esegue e verifica le proprie azioni prima di presentare un risultato. I pattern individuati da Gulli enfatizzano la riflessione interna e la capacità dell’agente di auto-valutarsi, correggersi e pianificare strategie più complesse. Questo tipo di struttura è ciò che permette agli agenti di ridurre errori come le allucinazioni e di lavorare su compiti che richiedono più passaggi logici.
Altro aspetto critico è la gestione della comunicazione e dell’orchestrazione. In un sistema enterprise, un agente non opera isolato: deve accedere a database, API, strumenti esterni e talvolta cooperare con altri agenti specializzati. Standardizzare questi meccanismi di comunicazione e di scambio di informazioni è fondamentale per costruire sistemi che non si sfaldino non appena incontrano dati reali o processi aziendali complessi. L’idea di un “pattern di routing”, per esempio, permette di dirigere compiti semplici verso modelli leggeri e compiti più complessi verso modelli capaci di ragionamenti più profondi, ottimizzando risorse e costi.
Un problema che emerge spesso nei progetti di agentic AI enterprise è la mancanza di memoria e di contestualizzazione, che può portare agenti a “dimenticare” istruzioni o informazioni critiche nel corso di una conversazione o di un processo multi-step. I pattern proposti affrontano questa lacuna fornendo strutture per immagazzinare e richiamare informazioni rilevanti, creando agenti consapevoli del contesto e capaci di mantenere coerenza attraverso sessioni di lavoro estese.
Infine, non si può ignorare il capitolo della sicurezza e dei limiti operativi. Un agente autonomo che ha accesso ai sistemi aziendali può rappresentare un rischio se non vengono implementate barriere architetturali che ne limitino il comportamento a ciò che è autorizzato e conforme alle policy. I pattern discutono anche di come implementare guardrails e controlli per prevenire comportamenti indesiderati, proteggere dati sensibili e garantire che l’agente operi all’interno di confini sicuri.
Nel complesso, l’approccio ai design pattern agentic non è una moda passeggera, ma una evoluzione naturale della disciplina del software engineering applicata all’era degli agenti intelligenti. Si tratta di riconoscere che costruire agenti affidabili non è solo una questione di modelli più grandi o più intelligenti, ma di progettazione di sistemi complessi con principi solidi. Solo così le aziende potranno davvero tradurre la promessa dell’IA autonoma in valore concreto, evitando che queste tecnologie restino relegate alle brillanti dimostrazioni nei laboratori.
