Immagine AI

C’è un racconto che negli ultimi mesi si ripete con puntualità meccanica: l’azienda X annuncia tagli e, nella nota stampa, spunta la stessa giustificazione—l’intelligenza artificiale ha reso alcuni ruoli superflui. Eppure, andando oltre i titoli, il quadro che emerge è più sottile e meno consolatorio. Sembra diventata una formula che funziona bene nella comunicazione: mostra l’azienda come aggressiva sull’innovazione, copre altre ragioni più prosaiche, dà un’aura di inevitabilità a decisioni costose in termini umani.

La cronaca degli ultimi mesi ha offerto esempi vistosi. Meta ha tagliato seicento persone nel suo Superintelligence Lab; Google e Microsoft hanno alternato ondate di riduzioni; Salesforce, a settembre, ha lasciato a casa quattromila addetti al supporto clienti dichiarando che l’AI può coprire metà delle attività; anche Klarna e Duolingo sono finite nel mirino della conversazione pubblica. Una lettura, però, suggerisce che questa “narrazione AI” funzioni come paravento: l’onda lunga di assunzioni in eccesso durante la pandemia, i ribilanciamenti di portafoglio e gli accomodamenti contabili spiegano più di quanto non dica l’etichetta “automazione”. Lo sottolinea, nell’articolo, l’economista Fabian Stephany di Oxford: l’uso dell’AI come spiegazione unica suona “più come un buon pretesto” che come diagnosi rigorosa di efficienza.

A spingere la retorica, secondo la testata, non sarebbe solo la voglia di trovare un capro espiatorio elegante, ma il valore di immagine. Dichiarare che l’AI ha sostituito persone diventa un segnale per i mercati: siamo all’avanguardia, stiamo cambiando la struttura dei costi, sappiamo “fare più con meno”. Un analista citato—Brad Gastwirth—arriva a leggere alcuni tagli come messaggi di forza: non licenziamenti da domanda in calo, ma ristrutturazioni interne rese possibili da investimenti su infrastrutture e strumenti AI, con l’obiettivo di comprimere i costi strutturali e riallocare capitale. È un racconto che piace agli investitori e che, messo in prima pagina, orienta la percezione più della contabilità spicciola.

Poi c’è il banco di prova dei dati, che raramente concedono slogan facili. Lo Yale Budget Lab ha osservato che, dal debutto di ChatGPT a oggi, il mercato del lavoro statunitense non mostra scossoni riconducibili in modo netto all’automazione AI. A sua volta, uno studio di economisti della Federal Reserve di New York su imprese dei servizi e della manifattura nel Nord di New York e New Jersey non rileva cali occupazionali statisticamente significativi nei reparti che stanno introducendo strumenti AI. Anzi, la penetrazione cresce—tra i servizi, dal 25% al 40% delle aziende in un anno; nella manifattura, dal 16% al 26%—ma l’effetto licenziamenti resta marginale. La quota di imprese dei servizi che negli ultimi sei mesi hanno effettivamente licenziato a causa dell’AI si ferma all’1%; più rilevante, semmai, è l’aspettativa di ridurre nuove assunzioni nel 2025 (12%), segnale che l’impatto potrebbe lavorare per sostituzione al margine, non per espulsione di massa.

In questo scenario, l’AI diventa una parola-ombrello utile a raccontare cambiamenti organizzativi più lenti e profondi. È vero che l’automazione tocca mansioni ripetitive, codificabili, supportate da workflow digitali; ed è vero che customer care, back office, alcuni processi di vendita e di produzione contenutistica sono già attraversati da assistenti e agenti AI. Ma la traiettoria che si intravede è più vicina a un raffreddamento dell’organico futuro che a una emorragia di posti presenti. Il ricambio avviene quando si apre una posizione e, spesso, non si apre più; quando si ridisegna un team e la competenza richiesta si sposta; quando l’azienda sostituisce ore umane con crediti API. È un impatto reale, ma graduale, che si misura nei flussi più che negli strappi.

Resta il tema culturale: attribuire tutto all’AI rischia di alimentare paura e rassegnazione. L’articolo nota come la stessa narrazione del pericolo sia diventata, per alcuni, un modo efficace di fare comunicazione. Eppure la storia economica mostra cicli ricorrenti: l’ansia per la “macchina che ruba il lavoro” attraversa secoli e tecnologie, ma la risultante complessiva combina sostituzione e creazione di nuove funzioni. Vent’anni fa nessuno avrebbe saputo definire un “influencer” o uno “sviluppatore di app”; oggi esistono intere filiere. Il punto non è negare il dolore dei tagli, ma evitare che l’AI diventi un alibi che nasconde errori di strategia, eccessi di spesa o semplici scelte di priorità.

Se c’è una lezione da portare a casa, è la necessità di distinguere tra segnale e rumore. Il segnale dice che l’AI sta rimappando processi e competenze e che le aziende useranno l’occasione per ripensare le strutture. Il rumore è la scorciatoia comunicativa: li abbiamo licenziati perché l’AI è troppo brava. Nel mezzo ci sono le persone, le loro traiettorie professionali, e un lavoro di politica industriale, formazione e transizione che non si fa con gli slogan ma con programmi, incentivi e accountability. Spetta ai media, agli investitori e ai decisori pubblici chiedere conto delle vere motivazioni dietro ai tagli, pesare i dati e guardare alle dinamiche occupazionali con orizzonte pluriennale, non con il fiato corto del trimestre. Solo così, forse, l’AI smetterà di essere il capro espiatorio perfetto e potrà essere discussa per ciò che davvero è: una piattaforma tecnologica potente, che ridisegna come lavoriamo molto più di quanto non decida se lavoriamo.

Di Fantasy