C’è qualcosa di magico nello scrivere “Crea un modulo di contatto con invio via email” e vedere l’Intelligenza Artificiale trasformare quelle semplici parole in codice funzionante, quasi come per incanto. Questo è il nucleo del vibe coding: un paradigma in cui il codice non si scrive più riga per riga, ma si “vibra”, lo si guida con la lingua naturale. Il termine è stato coniato da Andrej Karpathy all’inizio del 2025, incarnando la visione della programmazione fatta di sensazioni, prompt e sperimentazione più che di rigide sintassi.
Il bello del vibe coding è proprio lì, nella rapidità e nella democratizzazione del processo. Un’idea, un comando in linguaggio naturale e—bam—the AI genera un prototipo operativo. L’interfaccia, il form, i testi… tutto appare al volo, come nel sogno più innovativo di un founder o di un hobbista curioso. Tutto sembra possibile, a portata di click, di voce, di testo.
Tuttavia, questa promessa luminosa nasconde crepe nascoste, visibili solo quando si prova ad andare oltre il prototipo. Come osserva Chaitanya Choudhary, CEO di Workers IO, il codice generato spesso manca di “specifiche chiare, logiche coerenti e schemi solidi”; senza una base solida, il progetto può sfasciarsi rapidamente man mano che si evolve.
Un’altra criticità emerge con gli utenti meno tecnici. Namanyay Goel, fondatore di Giga AI, racconta dell’esperienza frustrante di molte persone: “Molti trattano gli strumenti di vibe coding come se fossero un menu – scegli, ordini e basta – ma la programmazione è più come cucinare: serve sapere cosa stai facendo, altrimenti il piatto fallisce”. In particolare, l’80% del lavoro – quello che crea l’interfaccia semplice e accattivante – è gestito bene dall’AI, ma l’ultimo 20%, ovvero la robustezza, il debugging, la scalabilità, è ciò che davvero conta… e lì il sistema inciampa, spesso senza che l’utente sia in grado di capire perché.
Tre elementi emergono con forza:
- Visione limitata – I modelli generativi non “vedono avanti”: costruire senza una panoramica chiara è come posare mattoni senza un progetto architettonico. Il risultato è un condensato di scelte isolate, soggette a errori strutturali.
- Test superficiali – Passare solo i test “happy path” dà una falsa sicurezza. Occorre verificare casi limite, usare strategie tipo fuzzing o property-based testing, ma raramente chi vibecoda ha tempo, strumenti o competenze per farlo.
- Integrazione fragile – Spesso il codice funziona in chat, ma fallisce nell’integrazione reale: autenticazione, pipeline CI/CD, performance… tutti elementi che richiedono attenzione e non si risolvono con un prompt.
- Manutenzione dimenticata – Senza specifiche o documentazione, ogni modifica diventa una nuova avventura, riscrivere la storia da zero anziché sviluppare un percorso coerente.
Goel descrive la prima avventura dell’utente inesperto: gioia iniziale, poi… il “wall dell’80/20”. Quella soglia in cui, improvvisamente, i prompt non bastano più, e la curva di apprendimento sembra troppo ripida. Un esempio su Reddit racconta di un utente che passava giorni a chiedere al sistema di generare i log, ma i log non comparivano semplicemente perché l’utente non aveva idea di come verificarli.
Le interfacce sembrano semplici, ma il backend complesso tradisce le aspettative. Ambiente variabile, database, deploy… senza basi solide, il progetto rimane un miraggio. Non basta un’idea: c’è bisogno di imparare prima di costruire.
Entrambi gli esperti convergono su una verità semplice ma cruciale: il vibe coding non è magia. È uno strumento potente, ma non una bacchetta magica. Serve sapere cosa si sta facendo, quanto meno a livello di debugging o di logica software:
- L’AI deve essere vista come tutor, non come sostituto: uno che guida, spiega, corregge, non uno che fa tutto al posto tuo.
- Salire la scala della qualità, non solo della velocità: investire in test, integrazione, specifiche porta più lontano del prototipo perfetto.
- Sviluppare solide competenze tecniche: iniziare da piccoli progetti, imparare a correggere un bug, comprendere l’architettura. Solo così si può trasformare il entusiasmo in risultati duraturi.
Il vibe coding ha abbattuto muri, ridotto barriere e reso possibile ciò che fino a poco tempo fa sembrava riservato a pochi esperti. È una rivoluzione nell’approccio: l’idea prima del codice, l’intuizione al posto del framework rigido. Ma come ogni grande innovazione, richiede maturità, disciplina e sobrietà. Se si vibra senza basi, ci si perde nel flusso. Se si vibra imparando, si costruiscono ponti solidi verso il futuro dello sviluppo software.