All’alba di una battaglia legale che dura da anni, il giudice federale Amit Mehta ha pronunciato una sentenza che potrebbe essere ricordata per la sua moderazione e portata innovativa nello scenario della regolamentazione dell’alta tecnologia. Invece di imporre la vendita dei gioielli di casa Google — il browser Chrome e il sistema operativo Android — la corte ha deciso di mantenere il nucleo delle operazioni intatto, ma ha ordinato all’azienda di condividere dati chiave del suo motore di ricerca con i concorrenti. Il tutto mentre l’intelligenza artificiale emerge come nuovo contendente nel campo della ricerca online.

Il Dipartimento di Giustizia (DOJ) aveva chiesto rimedi severi: vendita di Chrome, dismissione di Android e l’abolizione di accordi esclusivi con partner come Apple, che garantiscono a Google una posizione preferenziale. Ma il giudice Mehta ha giudicato molti di questi provvedimenti eccessivi e potenzialmente dannosi per i consumatori e l’innovazione.

Pur ignorando la richiesta di smantellamento, il giudice ha imposto una misura significativa: Google dovrà condividere dati relativi all’indice di ricerca e alle interazioni degli utenti con i concorrenti, sebbene non a livello di query dettagliate verso gli inserzionisti. Un passo delicato, ma mirato a impedire che il dominio nella ricerca porti a un controllo anche nel crescente universo dell’IA conversazionale.

Un elemento chiave della decisione di Mehta è il crescente ruolo delle tecnologie di intelligenza artificiale — come ChatGPT, Perplexity, Claude — che si affacciano alla competizione e potrebbero erodere il monopolio di Google nella ricerca tradizionale. Da qui l’esigenza di evitare soluzioni drastiche come la vendita di asset, optando per misure più flessibili e lungimiranti.

Immediata è arrivata la reazione positiva dei mercati: le azioni di Alphabet (Google) sono salite tra il 6% e l’8% nel trading after-hours, mentre quelle di Apple hanno beneficiato del mantenimento dell’accordo sui ricavi della ricerca, aumentando fino al 3–3,7%.

Con i dati ora accessibili ai concorrenti, si apre una possibilità concreta: sviluppare nuovi motori di ricerca e assistenti IA basati su dati reali, riducendo le barriere all’ingresso. Tuttavia, gli analisti sottolineano che Google mantiene un vantaggio difficilmente superabile a breve — la scalabilità del sistema e la quantità dei dati accumulati restano impressionanti.

Il DOJ, pur salutando «significative misure correttive», non considera chiusa la partita: è possibile — e molto probabile — un ricorso in appello. Intanto, il tribunale ha disposto che Google e il Dipartimento si incontrino per accordare un testo definitivo della sentenza entro pochi giorni.

Google esce dal processo con le spalle indenne, potendo conservare Chrome, Android e i lucrosi accordi di default. Ma l’obbligo di condividere dati di ricerca segna una piccola, ma storica apertura verso la concorrenza, forse sufficiente per permettere alle nuove generazioni di AI di entrare in campo. Una vittoria per Google, ma anche un segnale che la trasformazione dell’intero ecosistema digitale è solo all’inizio.

Di Fantasy